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Recensione Witold Gombrowicz

Witold Gombrowicz

Diario - Le prime pagine

Dai I tentativi di un clown metafisico di Francesco M. Cataluccio

"Gombrowicz mi ha fatto l’impressione di un clown metafisico, intendendo la parola clown nel senso più elevato e più bello."
Ernesto Sábato

1. La rivincita dell’io. "Desidero rivelarmi, smettere di essere per voi un enigma troppo facile da risolvere. Introducendovi dietro le quinte del mio essere, mi costringo ad arretrare in recessi ancora più profondi [...]. Ho cominciato a scrivere questo diario solo per salvarmi, per paura della degradazione e di sprofondare definitivamente nei flutti della vita triviale che già mi arrivano alla bocca." Così scriveva Witold Gombrowicz nelle pagine iniziali di un’opera per frammenti che lo avrebbe accompagnato negli ultimi quindici anni della sua vita. Una dichiarazione troppo modesta e arrendevole per uno che, anche se precipitato nelle sfere più basse della società di Buenos Aires, si sentiva sinceramente, comunque, un genio e un aristocratico. Gli inizi degli anni cinquanta furono certamente un periodo difficilissimo per lui e lo scrivere era davvero l’unica arma che aveva per sfuggire alla sua degradazione. Ma, come sempre, Gombrowicz aveva in mente una regia: fare di questi frammenti l’apologia di se stesso e della sua arte. Non a caso il libro inizia così:

Lunedì.
Io.
Martedì.
Io.
Mercoledì.
Io.
Giovedì.
Io.
Venerdì.
Józefa Radzymin´ska mi ha generosamente procurato....
Quell’Io che invade le pagine costituisce la quintessenza della solitudine, come era già avvenuto nel caso di Henryk, il protagonista "shakespeariano" di slub (Il matrimonio, 1947 pubblicato per la prima volta, in spagnolo, nel 1948), che dava inizio al dramma con questo monologo:

Nessuno. Niente. Solo io
solo io.
Solo io.

Una solitudine che rivendica orgogliosamente la sua grandezza. La sfacciataggine, che soltanto un vero artista può avere, di mettersi al centro della propria opera. Come aveva fatto, nella seconda metà del xvi secolo, Michel de Montaigne con i suoi Essais ("Così lettore, sono io stesso la materia del mio libro..."), i Saggi amati e divorati dal Gombrowicz giovane, nella splendida versione, del 1931, di Tadeusz Boy-Zelen´ski che, giustamente, tradusse il titolo con Próby (Tentativi). Tentativi di fare i conti con un mondo e una cultura che si vanno frantumando e disperdendo in mille rivoli, e far fronte alla perdita del sé, alla morte dell’Io come principio ordinatore della realtà.
Il Diario ha il suo centro in un Gombrowicz spezzettato dalla vita che prova ostinatamente a erigere stabilmente il suo malfermo Io al di sopra di tutto. Come ebbero a notare molti suoi scandalizzati critici polacchi, in patria e anche nell’emigrazione, Gombrowicz non parla che di se stesso, persino se gli fanno male le scarpe. Il suo è un programma di resistenza contro la dissoluzione ma anche un viaggio attorno a se stesso, come per Montaigne, per cercare di capire, di mettere dei punti fermi nel caos della vita. Ed è anche un lucido progetto di guadagnarsi uno spazio nel mondo delle lettere, per esser capito e accettato dopo anni di silenzio ed emarginazione: "La parola ‘io’ è così fondamentale e primigenia, così colma della più tangibile, e quindi più onesta, realtà, così infallibile come guida e così severa come pietra di paragone che, invece di disprezzarla, bisognerebbe caderle davanti in ginocchio. Per quanto mi riguarda, penso addirittura che la mia preoccupazione per me stesso non sia abbastanza fanatica, che – per timore degli altri – non mi sono consacrato con sufficiente crudeltà a questo compito-vocazione e non ho spinto le cose abbastanza a fondo. Io sono il più importante e forse l’unico dei miei problemi: l’unico dei miei protagonisti del quale veramente mi importi".
Il Diario di Gombrowicz fu concepito inizialmente come una grande spiegazione della sua opera e di se stesso. Molti autori, sul termine della propria vita, sentono il bisogno di lasciare la "chiave" ai posteri per leggere correttamente il loro lavoro. Da qui nascono spesso degli equivoci, soprattutto quando poi quell’opera diventa qualcosa di autonomo e di diverso dalle intenzioni iniziali. Molti, e io tra questi, sono convinti che il risultato finale del Diario sia il capolavoro di Gombrowicz. C’è chi invece, come il suo grande amico Konstanty (Kot) Jelen´ski, che ne seguì la stesura, sostiene che questo apprezzamento è frutto di un fraintendimento: "Il Diario ha per prima cosa mirato a dare risonanza alla sua opera. Non ho alcun dubbio al riguardo. Dico sempre che il Diario è stato scritto da due autori: Gombrowicz e ‘Gombrowicz Public Relations’. Egli fu uno straordinario divulgatore della sua opera perché seppe esplicitarla in termini estremamente semplici ma che ancora appartenevano all’arte. Sapeva oggettivarsi. È stato il proprio miglior critico. È molto difficile parlare della sua opera poiché egli è stato il suo commentatore più acuto. [...] Il suo scopo era quello di far meglio conoscere la sua opera. In seguito si è impegnato nel gioco e si è messo a scrivere un diario che è, di fatto, un’opera d’arte. Le persone che mi dicono che il suo Diario è superiore al resto della sua opera non amano veramente Gombrowicz. [...] Io non credo a questa divisione della sua opera in invenzione, da un lato, e Diario, dall’altro. Credo che tutti i suoi romanzi siano degli oggetti autobiografici, così come l’oggetto autobiografico Diario è, a suo modo, un romanzo".
Se le intenzioni iniziali di Gombrowicz erano quelle di un’autopromozione, è indubbio che l’opera gli sia esplosa tra le mani. Il Diario che leggiamo oggi nella sua interezza è il compimento di un percorso intellettuale ed esistenziale profondo e doloroso. In esso lo scrittore polacco esprime compiutamente la sua filosofia nell’unico modo che gli è possibile, sviluppando e precisando i temi contenuti nei suoi romanzi come Ferdydurke e Cosmo. Con il Diario lo scrittore polacco rivendica a sé un sapere specifico: il sapere del molteplice, che è irriducibile a una dimensione filosofica nel senso classico, a un sistema compiuto. Un sapere che è il risultato di uno stile di pensiero non sistematico, fatto di brevi illuminazioni, di intuizioni mai tematizzate (secondo l’insegnamento dei tre filosofi a lui più cari: Nietzsche, Schopenhauer, Heidegger).
Un’opera complessa e affascinante che attende ancora di essere valutata appieno come uno dei risultati più alti del pensiero del Novecento.

[…]

© Feltrinelli

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