Recensioni libri

Massimo Mucchetti

Massimo Mucchetti biografia

Recensione

Foto

Libri


Autori
A B C D E F G
H I J K L M N
O P Q R S T U
V W X Y Z

Scrittori presenti: 20915

Menu

Recensioni libri
News
Autori del giorno
Top20
Le vostre Recensioni
Newsletters
Percorsi Narrativi
I nostri feed RSS
I premi Nobel per la letteratura
Albo d'oro Premio Strega
Albo d'oro Premio Campiello

 

Recensione Massimo Mucchetti

Massimo Mucchetti

Intervista su "Licenziare i padroni"

a cura della redazione di www.feltrinelli.it

Com'è nato questo libro?
Carlo Feltrinelli mi ha chiesto per la prima volta di scrivere un libro sul capitalismo italiano sei o sette anni fa durante una colazione dai suoi amici della Vitale & Borghesi, una piccola banca d’affari milanese che oggi è diventata la filiale italiana della maison Lazard. Pensava che la testimonianza di un giornalista attento ai bilanci più che ai pettegolezzi, milanese più che romano, potesse essere interessante. Ma allora non accettai.
Rievoco l’origina remota, in un certo senso privata, di questo lavoro non per suggerire chissà quali interminabili pensamenti, ma solo per ricordare perché, pur avendo in mente l’idea, allora non ne feci nulla: a mio avviso, a metà degli anni novanta, scrivere un libro come questo sarebbe stata una manifestazione di estremismo.

Perché i padroni non erano già da licenziare?
In molti casi lo erano anche allora. Ma a metà degli anni novanta mi sembrava possibile – non probabile, ma possibile – che il capitalismo italiano cogliesse la Grande Occasione che si andava dispiegando. Mai come nel decennio appena trascorso sono affluiti capitali di rischio al sistema delle imprese. Dal 1993 al 2001 tra aumenti di capitale e collocamenti sono stati versati 274 mila miliardi di lire. Nel 2000, la Borsa di Milano valeva il 70 per cento del prodotto interno lordo italiano. C’erano tutte le premesse per uscire al capitalismo senza capitali che Angelo Costa illustrava alla Costituente nel 1946. Le privatizzazioni avrebbero potuto aprire la strada a nuovi soggetti dell’economia. per avviare la concorrenza, rompere le conventicole, archiviare il vecchio sistema delle scatole cinesi che assicura ai soliti noti il massimo del potere con il minimo dell’investimento. Nello stesso arco temporale, si andava esaurendo la Prima Repubblica. E le inchieste giudiziarie ponevano le premesse di un possibile rinnovamento dei codici. E invece…

E invece?
E invece la Grande Occasione è stata persa. Gli uomini nuovi, i Tronchetti, gli Gnutti, i Benetton hanno fatto uso degli stessi sistemi dei vecchi, degli Agnelli, dei Ferruzzi, di Mediobanca. Chi, come Colaninno, ha creduto all’emergere di una razza padana di piccoli investitori capaci di reggere un progetto industriale di ampio respiro sulle telecomunicazioni si è dovuto accorgere a sue spese – a sue spese si fa per dire, perché qualcosa ha guadagnato – che l’obiettivo era solo la speculazione.

Ma l’Italia, in realtà, è andata avanti.
L’Italia delle piccole e medie imprese è cresciuta. Ha creato nuova ricchezza. L’Italia dei grandi gruppi no. Dal 1986 al 2001 la Fiat ha bruciato 27 mila miliardi di vecchie lire, la Olivetti 14 mila, Montedison 9 mila, la Pirelli quasi 4 mila, Finmeccanica 6 mila, l’Italcementi oltre mille…

Chi lo dice? Chi ha fatto questi conti?
Questi conti li ha fatti il sottoscritto e li ha verificati con alcuni addetti ai lavori. Ma si tratta di calcoli che potrebbe fare chiunque, basati come sono su dati ufficiali e non su soffiate particolari.

E perché non sono stati fatti prima?
Forse perché negli ultimi anni i giornalisti, e anche gli studiosi, hanno ritenuto che riconsiderare il passato, anche solo il passato prossimo, fosse una perdita di tempo. La Borsa guarda al futuro. E se la Borsa diviene l’idolo contemporaneo, se il suo modo di ragionare diventa il pensiero unico, si finisce con l’assumerne le logiche anche dove non si dovrebbe. In realtà, i grandi della finanza hanno memoria d’elefante, ma gli yuppies non sono grandi. Sanno tutto dello yield e del p-e, ma non sanno che c’è più verità nell’usuraio e sua moglie di Quentin Metsys che in un rapporto della Goldman Sachs.

Dunque certi silenzi derivano solo da mancanza di cultura.
Credo che questa sia la ragione principale. Ma forse c’è anche dell’altro. Perché chi ha creato ricchezza c’è. E può essere imbarazzante. Lo stato, per esempio, si è rivelato un imprenditore vincente.

Ma le aziende di Stato non erano il peggio?
Queste sono le balle messe in giro dai grandi gruppi privati che le volevano, e le vogliono, prendere per un tozzo di pane. Nello stesso periodo 1986-2001 nel quale i grandi privati distruggono tanta ricchezza, l’Eni genera 66 mila miliardi di nuova ricchezza, l’Enel 12 mila, Telecom Italia, nell’ultima fase della gestione pubblica 41 mila. Si dice: bella forza, godono di posizioni monopolistiche o quasi. E’ vero. Ma è anche vero che fino al 1994, queste società perdevano o guadagnavano pochissimo. E oggi i privati in fuga dalla grande industria le cercano a tutti i costi, e in tutti i modi ne vogliono preservare le posizioni dominanti sul mercato con i relativi privilegi. Nel libro racconto, sulla base di documenti inediti dell’Iri che erano conservati non nell’archivio di stato, ma nel cassetto della scrivania di Enrico Cuccia, il più grande banchiere italiano del Novecento, come la Sip – così si chiamava allora Telecom Italia – fosse stata offerta invano ai vari Agnelli, Pirelli, Motta, Cini e compagnia. Il senatore Giovanni Agnelli, il nonno dell’avvocato Agnelli appena scomparso, lasciò perdere osservando che il telefono era "roba da ricchi". Lo stato si è fatto imprenditore perché i privati, che avrebbero potuto gestire la grande impresa, si sono sottratti all’impegno. Le ragioni sono tante. Le responsabilità non toccano tutte ai capitalisti, ma i fatti restano quelli.

Ma non c’è nessun grande capitalista privato con le carte in regola?
Tra i molto grandi non ce ne sono molti. Ne cito due. Leonardo Del Vecchio e Silvio Berlusconi. Il primo mi pare, al momento, un esempio del tutto positivo: ha gestito con grande capacità la Luxottica reinvestendo nella sua vera attività tutte le risorse. Quando ha speculato – e l’ha fatto con i grandi magazzini GS – l’ha fatto con i soldi suoi e non con quelli dell’azienda. Tutto il contrario, insomma, di Fiat e Pirelli, di Ferruzzi e Montedison, che hanno diversificato con i risultati che ciascuno può constatare.

E Berlusconi?
Silvio Berlusconi ha creato, con la Fininvest, 11 mila miliardi di nuova ricchezza.

Davvero?
I numeri sono i numeri. Ma Berlusconi è un esempio assai meno positivo di Del Vecchio. Il patron di Luxottica sta sul mercato internazionale, compete ai massimi livelli. Non fa ricerca, perché il settore non ne esige. Del resto nemmeno Fininvest ne fa. E questo ci dovrebbe far riflettere tutti: un sistema che non fa ricerca non può avere un gran futuro. Ma l’imprenditore Berlusconi, dicevo, vince perché ha saputo costruire una posizione dominante per le sue televisioni. La Rai, beneficiando del canone, ha a disposizione per la pubblicità un tempo che equivale a poco più di un quarto di quello a disposizione di Mediaset. Per le tv del Biscione, dunque, non c’è di fatto concorrenza. Non a caso, la Rai non viene mai privatizzata. In altri settori, per esempio in quello della grande distribuzione o delle guide telefoniche, la Fininvest ha fallito.

Beh, allora nel complesso Berlusconi è stato bravo.
Come imprenditore non c’è dubbio. Certo, più bravo di Gianni Agnelli o di Raul Gardini, per citare due personaggi ormai consegnati alla storia. Ma questo genere di classifiche mi lasciano freddo.

Perché?
Perché tutti questi signori, queste aziende non sono come squadre di calcio, per le quali fare il tifo; né rappresentano ideali da sostenere, magari con qualche sacrificio. Questi signori perseguono soltanto il loro personale interesse, anche se spesso dicono il contrario. In fondo è la loro moralità professionale. Ma noi che cosa c’entriamo? Noi facciamo i giornalisti. E la nostra moralità è cercare di capire e raccontare il mondo, e commentare avendo come bussola il bene comune. In questo l’informazione è affine alla politica…

Un bel pistolotto, ma per dire che cosa?
Per dire che la creazione di ricchezza va bene certamente quando avviene seguendo le buone regole come nel caso Luxottica. Può andare bene o male quando è protagonista un monopolio di stato: i cittadini, "azionisti" del monopolio, possono decidere, attraverso la mediazione della politica, se la ricchezza creata dall’Enel o dall’Eni debba andare, semplifico, in maggiori salari per i dipendenti dell’Enel e nell’Eni, in più cospicui dividendi per i soci o in minori tariffe per gli utenti. Non va bene invece, se la ricchezza viene generata da un monopolio privato. E le ragioni sono evidenti. Berlusconi, come gli altri, tende al monopolio. La politica, che dovrebbe avere per scopo il bene comune e non l’interesse personale, dovrebbe tagliare le unghie ai monopolisti. Dunque anche a Berlusconi. Ma la politica da 10 anni è Berlusconi. E Berlusconi non può tagliare le unghie a Silvio. Nel libro, per questo personaggio mezzo politico e mezzo imprenditore ho adottato la definizione che Cuccia dava di sé stesso: "Sono un Centauro", diceva il vecchio banchiere alludendo alla duplice natura dell’azionariato della sua Mediobanca, "mezzo pubblico e mezzo privato": Berlusconi è il Nuovo Centauro. Che ha scalato con minima spesa la politica e si è blindato come nessuno.

E’ un approccio molto pessimista. Non c’è speranza?
Non ragionerei in termini di pronostici, di pessimismo o di ottimismo. Vedrei se invece l’analisi è corretta. E se è vero che alla radice della crisi della grande industria italiana c’è l’eclisse di un padronato che trova più conveniente rifugiarsi nei monopoli, più meno ex, dei telefoni o della tv, dell’energia elettrica del gas, delle autostrade, allora il problema è come ricostruire un padronato degno di questo nome, perché unisce il potere alla responsabilità patrimoniale e al rischio assunto in prima persona. E’ questione di regole, di leggi e di politica industriale. Di togliere dalla costituzione materiale dell’economia quella specie di articolo 18 che rende inamovibili i grandi padroni – che si chiamino azionisti di maggioranza o di riferimento, che siano banche d’affari o manager travestiti e onnipotenti non importa. E questo costituisce la materia del capitolo finale del libro che, non a caso, si intitola "Il mestiere dello stato".

Massimo Mucchetti I Libri Biografia Recensione Le foto

Ti piace la scrittura creativa, la poesia e parlare di letteratura? Perche' non vieni sul forum di zam per incontrare nuovi amici con la tua passione!

 

 Ora puoi inserire le news di zam.it sul tuo sito.
Pubblica le news

ULTIME NEWS
"Il Custode" di Ron Rash: un'epica tragedia ambientata negli Appalachi
[28-04-2024]
Le lotte interiori e l'orso di Marian Engel
[24-04-2024]
La primavera silenziosa di Rachel Carson, il primo libro ambientalista che ha cambiato il mondo
[18-04-2024]
Hard Rain Falling: Un Viaggio Dostoevskiano nel Buio dell'America degli anni '40
[15-04-2024]
New York negli Anni '60: Lo Scenario Urbano di Jim entra nel campo di basket di Jim Carroll
[10-04-2024]
La calda estate di Mazi Morris, il romanzo d'esordio hard boiled della scrittrice israeliana Daria Shualy
[09-04-2024]
Le cavie umane nell'Unità di Ninni Holmqvist
[07-04-2024]
Il mondo di Charlie, la saggezza di un ultra centenario
[04-04-2024]
Leggi le altre News