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Recensione Ferdinando Camon

Ferdinando Camon

Mai visti sole e luna

Ferdinando Camon Mai visti sole e luna
Ferdinando Camon Mai visti sole e luna

Mai dimenticare!
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Devo ammettere che la lettura dei libri di Ferdinando Camon riserva sempre grandi sorprese, e non solo per quanto concerne il tema trattato, ma anche per come esso viene esposto. Su quest’ultimo aspetto ritornerò in argomento approfonditamente più avanti, perché credo che ben più importanti siano i contenuti, tali da scuotere una naturale indolenza estiva che mi porta a cercare prose facili e meno impegnative. No, con Mai visti sole e luna, è d’obbligo leggere soffermandomi su svariati punti, lasciandomi trascinare dalle apparenti digressioni di cui è infarcito il racconto e con le quali l’autore conduce per mano a scoprire i reali e autentici significati di questa sua fatica.
Ancora una volta lo scenario è quello agreste, il mondo è quello contadino, lontano mille miglia dalle visioni idilliache delle Bucoliche di Virgilio, una terra aspra su cui spezzare le reni per trarre il necessario per il proprio sostentamento, una civiltà sempre uguale nel tempo che l’industrialismo del dopo guerra ha spazzato via. Uomini e natura, natura e uomini, quasi un’identità che non lascia scampo: si viene al mondo sulla terra, alla terra si ritorna quando si muore, in una vita già scolpita nella pietra del tempo, fatta di poche gioie e di molti dolori. È un’esistenza dura e lo è ancora di più se si aggiungono alle tante difficoltà e privazioni quotidiane una guerra (la seconda) e la feroce occupazione tedesca. È il barbaro germanico che nell’assoluta condizione di essere superiore schiaccia, tortura, uccide i contadini, visti non come uomini, ma come paria, come individui inferiori, eguali ai loro animali. Mi sale un brivido lungo la schiena nel ricordarmi di certe nefandezze raccontate nel libro: sono massacri del tutto inconcepibili che non possono trovare giustificazione e le cui vittime gridano ancora giustizia, senza essere ascoltate. Anzi, il tempo smussa, sfuma, la resistenza nelle campagne diventa un evento lontano, talmente lontano che i figli dei figli dei figli di quei protagonisti ora possono perfino chiedersi se qualche cosa c’è stato, o ancor peggio non chiedono nulla, non gli interessa, meglio ignorare il passato per vivere sradicati senza uno scopo, succubi del presente.
E pur in questa tragedia, che si rincorre di pagina in pagina, e nonostante l’esperienza dell’autore, perché l’aspetto autobiografico non è per nulla secondario, le capacità narrative sono sorprendenti, accompagnate da un velo d’ironia che nel capitolo che dà il titolo all’intera opera (Mai visti sole e luna) si trasforma nella satira dell’alfabetizzazione serale.
Però il sipario si apre ogni volta sul mondo contadino e curiosa al riguardo è la parte della contrapposizione fra campagna e città, quest’ultima fonte di tanti guai, perfino della guerra, abitata da individui incapaci di integrarsi, a differenza dei contadini, che vivono nella natura e secondo i ritmi della stessa.
Convengo però con Giorgio Bàrberi Squarotti, autore della postfazione, che giustamente scrive che leggere Mai visti sole e luna come l’opera dell’estrema nostalgia contadina, dell’ultima elegia di una cultura scomparsa, oppure come la rinarrazione, a tanta distanza di decenni, della guerra e della resistenza e anche degli anni che seguirono la guerra, significa ridurre alquanto il significato di un’opera che porta invece in sé un messaggio di universale portata. E quale è questo messaggio? La società moderna, in cui l’apparenza vela qualsiasi realtà, in cui tutti sembrano felici senza esserlo, in cui la ricchezza è la pietra di paragone per definire qualità che non sono tali, impedisce di vedere – a differenza di una civiltà contadina in quel tempo, nuda e scarna, che non impone visioni artefatte, ma si presenta tale e quale è - la vera tragica condizione umana, immutabile da epoche immemorabili: si nasce per poi morire e si paga il prezzo della morte vivendo.
Quindi, questo libro porta diversi messaggi, anche se forse ce n’è uno che all’autore interessa in modo particolare: l’importanza della memoria. E in questo senso Ferdinando Camon ha ben presente il concetto che, senza memoria, un fatto, per quanto aberrante e tragico, è come se non fosse mai accaduto. Non è quindi un caso se nella dedica ha riportato a penna queste parole: non c’è giustizia dopo le grandi stragi. E’ vero, la storia ce lo insegna, l’armadio della vergogna non è fantasia, ogni scusa è buona per seppellire il passato, quando scomodo. E questo è un ulteriore messaggio: il perdono interessato ai carnefici, senza pietà per le vittime, è un trionfo di quell’animalità che è in noi e che puntualmente, qualora le circostanze lo richiedano, si ripresenta.
E veniamo all’esposizione, a un italiano parlato che ha il grande pregio di essere corretto, bello ed efficace anche trascritto, con periodi lunghi che non stancano, anzi incollano il lettore alla pagina, con il ricorso non infrequente, ma esatto e insostituibile, al dialetto, in un contesto generale che sembra porgere una realtà in palmo di mano.
Camon deve aver voluto molto bene alla sua gente, a questi campagnoli, spesso ottusi e in lotta perenne con una natura indomita, un mondo ormai scomparso, sostituito da un’agricoltura industriale anonima, come anonimi sono gli attuali agricoltori, così diversi da quei contadini che nella loro umiltà non si sono mai nascosti il destino di ogni uomo.
Mai visti sole e luna è un romanzo stupendo, un vero e proprio capolavoro.

Di Renzo.Montagnoli

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