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Recensione Quirino Conti Mai il mondo saprà - Le prime pagine
Capitolo 1, L’abito di Dio
“Nelle condizioni della nostra vita su questa terra, non c’è nessuna ragione perché ci sentiamo obbligati a fare il bene, a esser delicati, e persino cortesi, o perché un artista si creda in dovere di rifare cento volte un “pezzo” – come la piccola ala di muro gialla, dipinta con tanta abilità e raffinatezza da un artista sconosciuto, appena identificato sotto il nome di Vermeer – destinato a suscitare un’ammirazione che importerà ben poco al suo corpo mangiato dai vermi. Tutti questi obblighi, i quali non trovano sanzione nella vita presente, sembra appartengano a un altro mondo, fondato sulla bontà, lo scrupolo, lo spirito di sacrificio: un mondo interamente diverso dal nostro e di dove usciamo per nascere a questo, e nel quale ritorneremo a vivere forse sotto l’imperio di quelle leggi ignote cui abbiamo obbedito perché ne rechiamo in noi l’insegnamento, senza sapere chi le abbia formulate: quelle leggi cui ci ravvicina qualsiasi lavoro profondo dell’intelligenza e che rimangono invisibili soltanto (e non soltanto) agli sciocchi. Perciò, l’idea che Bergotte non fosse morto per sempre non è del tutto inverosimile.”
Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, La prigioniera
Con la sua buffa faccia di fauno beffardo, arguto e sorridente, ancora luminosa, così simile a quella di Arthur Rubinstein quando, a occhi stretti, se la rideva a crepapelle, sul letto di morte Marc Chagall chiese una Bibbia. Quando la ebbe fra le mani sussurrò: “Qui c’è tutto, c’è tutto!”, e serrandosela al petto se ne volò via per raggiungere i suoi barbuti violinisti verde-azzurrini in tuba, le capre viola, i cavalli e le ballerine – bianchi e alati entrambi – sui tetti sbilenchi di Parigi e del mondo. Ed è proprio così, in quel libro c’è tutto; a cominciare – e sembra impossibile, tanto lo si è ignorato preferendogli per evidenti motivi il nudo primigenio – dal primo abito che sia comparso nel Creato appena chiamato in vita al primo, in questo caso davvero divino, couturier-stilista che ne fu l’autore: Dio stesso. “E il Signore Dio fece all’uomo e a sua moglie delle tuniche di pelli e li vestì” (Genesi, 3, 21). Evidentemente, per indossarle i due progenitori si erano dovuti disfare, perché inconfrontabile, del poco che da soli erano riusciti ad arrangiare dopo aver assaporato il frutto proibito: “Si aprirono allora gli occhi di ambedue e conobbero che erano nudi; perciò intrecciarono delle foglie di fico e se ne fecero delle cinture” (Genesi, 3, 7).
Dunque da un lato la creatura che, come massimo sforzo, nella confusione e nel rossore per l’improvvisa e imprevista scoperta seguita alla colpa, non trova che del fogliame da strappare per farsene una pragmatica quanto pudica cintura. Dall’altro, il Creatore per eccellenza, il Signore Dio, che con quelle due tuniche elabora il primo prototipo di prodotto di derivazione della storia. Se infatti quelle foglie furono al massimo giustapposte e intrecciate, con non più di due o tre passaggi logici, ben diverso è – ovviamente in senso metaforico – l’esito di quelle tuniche come ultimo risultato di un processo che l’autore biblico deve supporre lungo, complesso e sofisticato. Nate dunque prima della storia e in assenza di storia, poi, così com’erano, tali e quali, letteralmente da un altro mondo, come un misterioso meteorite – e come in molte altre tradizioni culturali –, divine perché cedute dalla divinità, precipitate nel Tempo appena scoccato, neo-nato, dopo quel doloroso allontanamento. Oggetti criptici, da decifrare, perché scritti in un linguaggio altro, fuori dal Tempo e dallo spazio, ai quali si è fatta un’abitudine convenzionale e mai del tutto vera; gli abiti non ci appartengono, provengono infatti da un paradiso perduto.
© 2005, Feltrinelli editore
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