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Recensione Salvatore Veca

Salvatore Veca

La priorità del male - Le prime pagine

Premessa

Raccolgo in questo libro alcuni saggi scritti e riscritti nel corso degli ultimi tre anni. Il libro è articolato in quattro parti. Nella prima, La priorità del male, tre capitoli affrontano il problema dei diritti umani e della giustizia internazionale e mettono a fuoco un’idea di libertà, che è al centro della controversia e del conflitto contemporaneo di valore politico, in tempi difficili. L’idea della priorità del male è formulata nel quadro di un argomento, che mira alla giustificazione di una tesi universalistica sui diritti umani. Un argomento che integra e amplia la prospettiva di una teoria della giustizia senza frontiere, di cui avevo delineato i prolegomena in La bellezza e gli oppressi. Allo stesso modo l’esame delle prospettive cosmopolitiche, proposto nel secondo capitolo, mira all’esplorazione di possibilità politiche, istituzionali e sociali, entro i vincoli severi dello spazio che lo stato del mondo ci concede.
Quando ci si misura con l’ingiustizia della terra, la tesi meno controversa che si può avanzare in filosofia politica è che noi non viviamo in un mondo giusto. Come ha osservato Thomas Nagel in un recente saggio sul problema della giustizia globale, quello che è molto meno chiaro è che cosa precisamente voglia dire la giustizia su scala globale. È meno chiaro, e altamente controverso, come pensare lo spazio e il disegno di istituzioni internazionali o come valutare le scelte e le politiche degli stati che sono in grado di avere effetti sull’arena mondiale. A una varietà di concezioni definite di giustizia, che hanno tutte come riferimento la costellazione nazionale, corrisponde nella costellazione postnazionale un insieme di concetti, idee e categorie della giustizia globale, che si trovano in uno stato embrionale e scarsamente definito. Nagel ha ragione, ma mi chiedo come potrebbe essere altrimenti. E sostengo che la difficoltà della ricerca di possibilità politiche e istituzionali di un mondo meno ingiusto non rende meno doveroso il compito.
La consapevolezza realistica della natura delle difficoltà, che deriva propriamente dalla tensione fra una teoria della giustizia entro il contesto interno e una teoria della giustizia nell’arena hobbesiana delle relazioni internazionali, non è incoerente – come alcuni sostengono – con l’adozione di prospettive cosmopolitiche. La mia tesi è che la tensione fra le due concezioni di giustizia sia in qualche modo presente alle radici, nel nucleo del progetto cosmopolitico di Kant. Quanto è valutato dagli eredi come il sintomo di una difficoltà o di un intoppo nel cosmopolitismo kantiano, dovrebbe invece essere riconosciuto come la fonte del persistente interesse teorico dell’autore di Per la pace perpetua. In parole povere, l’accettazione del retaggio di Kant prevede che gli eredi prendano sul serio la sua duratura tensione con il retaggio di Hobbes.
La seconda parte, L’offerta filosofica, è costituita da tre capitoli in cui esamino la natura della costruzione e dell’offerta di filosofia politica, analizzo i mutevoli rapporti fra teoria politica e pratica politica, e avanzo alcune congetture sul senso del sapere umanistico nella cultura contemporanea. Paul Valéry ha sostenuto che all’origine di ogni teoria vi è un pezzo di autobiografia. Non so quanto questo sia vero in generale, ma certamente il mio esercizio metateorico coinvolge un frammento di autobiografia. La questione dei rapporti tra il fare teoria e il fare politica è al centro di una vicenda che ha caratterizzato buona parte del lavoro intellettuale, anche nella recente storia degli atteggiamenti e degli impegni di chi ha investito risorse nello spazio che sta fra l’indagine teorica e la pratica politica.
Adottando il gergo politico ereditato, questo è vero tanto nella tradizione della sinistra socialista, liberale e progressista, entro cui si situa il mio frammento biografico, quanto nella tradizione della destra conservatrice. La consapevolezza delle mutevoli connessioni tra il fare teoria e il fare politica, che emerge dall’analisi, non riduce naturalmente l’intensità degli impegni. La consapevolezza dà loro soltanto un senso più perspicuo. E induce a un elogio dell’autonomia del fare teoria, rispetto all’agenda dettata dai mutevoli soggetti della politica. In parole povere, ogni gesto di teoria è e deve essere, in primo luogo, un gesto di autonomia. Se le cose stanno così, la conclusione è che dovremmo essere più radicali ed esigenti nel fare teoria, proprio in virtù della consapevolezza d’autonomia.
Nella seconda parte il mio esercizio metateorico si estende dal caso dell’offerta di filosofia politica alla più ampia gamma dei casi di offerta di sapere delle cose umane. E ciò chiama direttamente in causa la fisionomia del paesaggio culturale che ci è contemporaneo. La tesi principale che avanzo in proposito è che il sapere che per convenzione chiamiamo umanistico è, nella sua essenziale varietà, un sapere che mira all’autoritratto. In questo senso, esso è intrinsecamente un sapere d’identità, e chiama in causa l’arte dell’interpretazione. La conclusione dell’esercizio mostra in che senso l’elogio dell’interpretazione non possa e non debba essere accompagnato dall’idea fatua e intellettualmente irresponsabile secondo cui tutto ciò di cui dobbiamo o possiamo occuparci è un ventaglio di interpretazioni, punto e basta. In parole povere, non tutti i fatti possono essere congiuntamente interpretazioni. Sostenere il contrario esprime una convinzione certamente popolare. Ma si tratta, altrettanto certamente, di una convinzione fallace. E la convinzione fallace è responsabile del discredito e del sospetto nei confronti del sapere delle cose umane, che campeggia nel nostro paesaggio culturale.
Per questo, nella terza parte, La verifica dei poteri, due capitoli si misurano con la questione controversa della responsabilità nei confronti della crescita della conoscenza scientifica e dell’innovazione tecnologica. La questione controversa chiama in causa la natura di atteggiamenti valutativi a proposito della scienza e della tecnica, che occupano uno spazio significativo nella cultura contemporanea. Il mio esame mira a rendere conto tanto delle ragioni del discredito e della condanna nei confronti dell’impresa scientifica e dell’innovazione tecnologica, quanto delle ragioni inverse della devozione e dell’adesione zelante. Due tipi di ragioni che si fronteggiano e, paradossalmente o ironicamente, finiscono per corroborarsi a vicenda nella cultura contemporanea.
Sostengo che entrambe le prospettive hanno alcune ragioni, ma che nessuna delle due ha ragione. E che una cultura matura e riflessiva non dovrebbe prendere sul serio le leggende metropolitane sul “destino della scienza e della tecnica”, né le pretese di una qualche versione o predica riduzionistica o scientistica. In parole povere, solo una cultura che faccia proprio il senso del limite e della distinzione fra ambiti e pretese di validità ha maggiori probabilità di conseguire esiti di equilibrio, instabile e provvisorio, fra le credenze su com’è fatto il mondo – e noi nel mondo – e le credenze a proposito di come dobbiamo vivere. In ciò – e non in altro – consistono le nostre familiari e difficili questioni di responsabilità.
Nella quarta parte, La vita esaminata, propongo nel capitolo conclusivo l’esame socratico delle nostre questioni di vita, applicato al caso relativamente intrattabile dell’amore, e cerco di chiarire la natura dell’offerta filosofica in casi come questo, e altri affini: casi in cui si formulano – l’uno accanto all’altro – enigmi socratici, come li chiamo. Anche l’esplorazione filosofica di un caso difficile come quello delle cose d’amore mira all’autoritratto. E il punto importante, in proposito, è costituito dai materiali, con cui si procede nell’esercizio rembrandtiano dell’autoritratto. L’esame si avvale di congetture filosofiche e cerca di gettar luce sul resoconto più perspicuo delle cose d’amore, in virtù delle connessioni con le congetture che si assumono come presupposti o come punti di partenza dell’indagine. Non si dà esame delle questioni di vita senza assunzioni. E la validità e la portata degli esiti dell’esame dipendono da tali assunzioni previe.
Nel caso dell’amore, la congettura fondamentale che favorisco è quella che caratterizza l’eros per persone come rapporto storico e contingente. Non credo all’adozione di uno sguardo innocente, in proposito. Né credo sia possibile che noi attingiamo una prospettiva indipendente da qualsiasi assunzione, come pretende l’esercizio dell’epoché fenomenologica. In parole povere, senza congetture e assunzioni previe, nessun risultato è disponibile per l’analisi. E, naturalmente, la validità del risultato è inevitabilmente connessa alla plausibilità e alla fecondità delle assunzioni.
Ora, le assunzioni e le congetture che impieghiamo nell’esame delle nostre questioni di vita hanno una storia e sono, in questo senso, contingenti. Noi, che siamo indaffarati in esercizi persistenti di autoritratto, lavoriamo inevitabilmente con materiali che ereditiamo da un vasto e complicato repertorio, che è alle nostre spalle. Un repertorio di possibilità o di exempla, come lo chiamo. Il repertorio è quello che accade sia il nostro. Un repertorio di possibilità che ospita per noi, fra le altre cose, un grappolo di valori etici, politici e sociali come quelli del recente Illuminismo sul cui senso torno a più riprese in queste pagine, sostenendo e articolando le ragioni di una sua interpretazione minimalistica. Altri, in altri repertori ereditati, esplorano e adottano altre congetture, ricorrendo alla pratica familiare dell’interminabile saccheggio di altri exempla. Che le nostre assunzioni e le nostre congetture valgano per noi, questo non è oggetto di controversia. La cosa funziona sia nei casi della deferenza verso i repertori ereditati, sia nei casi della critica radicale. E lo stesso vale simmetricamente per altri, che verso altri repertori esercitano le virtù della devozione o della revisione. Ma dovremmo per questo concludere che congetture e assunzioni ed exempla valgono solo entro i confini contingenti che separano noi da altri? Come avanzare ragioni a favore del fatto che la contingenza di credenze e convinzioni non ne riduce la validità, né la vincola inesorabilmente ai contesti? Come tenere assieme contingenza e normatività? Questo, e non altro, è il problema centrale che ricorre nei capitoli di questo libro. La tesi sulla priorità del male è apprestata per risolvere il problema centrale. E lo stesso vale per il mio persistente elogio dell’Illuminismo, in tempi difficili.

© Feltrinelli.

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