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Recensione Thomas Mann

Thomas Mann

Viaggio nel mondo di Thomas Mann

Di Anna Maria Fabiano

Morte e Malattia







Il problema della morte è parte integrante del tessuto narrativo di Thomas Mann: la seduzione, il sottile fascino che emana da tutto ciò che è ombra, da tutto quello che, in un modo o nell’altro, richiama, con profonda forza rievocatrice, il regno delle ombre, là dove tutto è inconsistenza e tutto appare voluttuosamente lecito. La morte non è solo dissolvimento organico, essa è simbolicamente spiritualità decadente, estranea al ritmo vitale dell’azione, della lotta impegnata, degli ideali concreti. La morte è, può essere, antagonista della vita, così come lo spirito contrasta la natura e l’arte l’impegno pratico-borghese-costruttivo.

Sono questi i binomi fondamentali che stanno alla radice della vicenda culturale di Mann e che si possono riassumere con le parole di Cremante “da un lato la nostalgia per un borghesismo che è per lui sinonimo di vita semplice, chiara, dignitosa; dall’altro il fascino decadente per tutto ciò che è disordinata e morbosa avventura spirituale. Il dissidio può assumere atteggiamenti diversi, ma resta sostanzialmente identico” (Lelio Cremante, I motivi artistici. L’Ambiguità manniana”)

Per Cremonte l’ambiguità manniana consiste nella mancanza di soluzione ai problemi che egli pone: se questo è vero, altrettanto vero è che Mann trasfonde nei suoi scritti, volgendola al positivo, la crisi del romanzo moderno, traducendo in simboli tutta la complessità del reale. Se i personaggi sono poveri, carenti di individualità precisa, ciò è proprio perché essi sono simboli di idee, e i rapporti che si creano tra l’uno e l’altro, fra tutti loro e la società, è proprio il mondo delle idee, complesso, vario e sempre meno precisabile.

Mann, dunque, come sostiene Checconi, è critico prima che narratore, il suo stesso far nascere contraddizioni da contraddizioni è la chiave per interpretare il suo tempo, è il suo tentativo di speculare l’umano, sospeso tra vita e morte.

Appare dunque spesso ambiguo. Ambiguo e contorto e a volte pesa sul tutto la sua robusta erudizione, fatta di musica e medicina, scienza e letteratura, così come pesa il suo sofferente essere tedesco. Non vediamo infatti, forse, in Mann la sofferenza del cittadino tedesco per gli orrori e i crimini di cui si è macchiato il suo popolo? Ritengo fra gli altri ci sia anche, e forse soprattutto, questo profondo contrasto: l’amore per il suo popolo, per la sua cultura che lo porta a difenderne ogni aspetto e ogni tipicità, cadendo molto spesso nell’ambiguo in senso negativo, nel sofistico vedere sempre il lato opposto di ogni teoria, in un moltiplicarsi cervellotico e snervante di particelle di pensiero; ed il rancore violento per i tedeschi che hanno distrutto la propria immagine nel mondo, capovolgendo il messaggio dei loro grandi uomini ed estorcendone gratuitamente la possibilità di creare falsi miti di presunta superiorità, come quello delle “bestie belle e bionde”.

Ogni essere umano è determinato dal suo gruppo etnico di appartenenza, ma anche da un patrimonio genetico e l’esistenza di Thomas Mann è la sintesi di due nature opposte: quella paterna- un borghese protestante tedesco- e quella materna- una brasiliana dal temperamento fantastico e musicale- sintesi che generò un artista borghese, destinato a soffrirne le più intime contraddizioni.

Nella lettera che Tonio Kroger invia all’amica Lisaveta Ivanovna dal gelido nord, si delinea nettamente il dualismo derivante dalla diversità etnica dei genitori di Mann stesso.

“Mio padre, sapete, era un temperamento nordico; riflessivo, scrupoloso, puritanescamente diritto e incline alla malinconia; mia madre, invece, l’indefinito sangue esotico, bella, sensuale, spontanea, a un tempo indolente e appassionata, spensieratamente impulsiva. Senza alcun dubbio era questa una mescolanza che racchiudeva in sé straordinarie possibilità e straordinari pericoli. Ed ecco che cosa ne risultò: un borghese sviatosi nell’arte, un bohèmien pieno di nostalgie per la buona educazione, un artista con rimorsi di coscienza. Perché appunto la mia coscienza borghese è quella che in tutto ciò che è arte, genio ed eccezione mi fa scorgere alcunché di profondamente ambiguo, profondamente dubbio, profondamente sospetto, è essa che mi riempie di quell’amorosa debolezza per il semplice, per il candido, per il piacevolmente normale, insomma per l’antigenialità e la costumatezza”. ( Thomas Mann, Tonio Kroger).

Per comprendere, o tentare di comprendere, la complessa vicenda di Thomas Mann, è necessario tenere presenti le antinomie suddette da cui egli deriva e attraverso cui egli si forma, nel tentativo di cercare il loro punto d’incontro e quindi la loro filosofica umana giustificazione.



Opere precedenti la Montagna Incantata



Uno sguardo panoramico ad alcune delle opere precedenti la Montagna Incantata ci propone un itinerario ben preciso che, come afferma Asor Rosa, rende possibile il superamento del problematicismo per una pedagogica acquisizione dell’umanesimo.

Ne “I Buddenbrook” è diffuso un senso di disfacimento, annunciato per sintomi progressivi. È una monumentale storia di quattro generazioni, ma fin dall’inizio si avverte il processo fatale che dissolverà le sane e robuste tradizioni borghesi, per sfociare nel decadente sguardo ambrato di Hanno, ultimo rampollo, chiuso nel suo doloroso ed estenuante tormento musicale. Qui chi vive la duplicità è il padre di Hanno, Thomas, collocato al punto d’incontro delle due tendenze: quella dell’equilibrio borghese e del senso del casato e di contro la seduzione del mondo enigmatico della moglie Gerda. Thomas rimane un isolato, un escluso. Gerda e Hanno gli sono incomprensibili e, all’estremo tragico, il fratello Christian gli è intollerabile, perché in lui vive l’artista negativamente concepito da Mann: dilettante, decadente, nevrotico, ammalato di un morbo che non lo uccide mai, fatto di “idee fisse”, di paure snervanti.

“In Christian(…) Mann ha proiettato le proprie riserve riguardo all’estetica decadente, agli abissi che si aprono di fronte al talento non sostenuto da un saldo impegno morale nella crisi generale dei valori” ( Carla Beccagli, Invito alla lettura di Thomas Mann, Ed. Mursia, 1878).

Già in questo romanzo è presente la morte, sia come fenomeno organico, sia come dissolvimento spirituale, sia come problema esistenziale, e l’antinomia tra spirito e vita, accolta da Nietzsche e Schopenhauer, corrisponde alla opposizione malattia/salute.

L’eroe in tensione è dunque Thomas: in lui i principi antitetici tra vita e spirito, salute e malattia, tradizione borghese e tendenze antiborghesi convivono ma si combattono. Se per un verso è animato da un enorme impulso produttivo nella Ditta, egli non possiede l’intima serenità di suo nonno, classico e razionalista che svolgeva il suo ruolo sociale senza porsi problemi di coscienza; e non assomiglia a suo padre che, antinapoleonico e nazionalista, portava con sé l’impronta della eredità luterano-pietista e riusciva ancora, anche se attraverso un profondo lavoro interiore, a mettere d’accordo moralità religiosa e attività economica, nella coscienza del rispetto dovuto alla tradizione di famiglia. Thomas invece vive in sé drammi e contraddizioni, dando vita, con la sua repulsione per Christian, ad un desiderio di mantenersi legato ad un mondo che gli sfugge e che cerca di trattenere compiacendosi di una perfetta forma esteriore.

Ma lo spirito che nell’ultimo rampollo Hanno prevarrà decisamente non manca di colpire la complessa psiche di Thomas; la paura della morte diventa esperienza mistica ed esaltante, vissuta attraverso l’incontro con Schopenhaur, la “morte come annullamento dei limiti individuali, come espandersi dell’io liberato dal principium individuationis e l’identificarsi di questo io col principio della volontà vitale e il suo rivivere in quanto tale in tutti coloro che felici ed eletti dicono sì alla vita” ( Carla Beccagli, op.cit).

L’attrazione è appunto momentanea: Thomas preferirà, sulla base dell’esempio dei padri, rifugiarsi in una religiosità conformista.

Hanno conclude il ciclo: creatura votata alla morte che preannuncia una figura di artista estetico/erotico capace di annullare se stesso.

Per il momento arte, malattia e morte sono soltanto disfacimento: distrutti i valori sani e borghesi, fondati su una vitalità attiva ed operosa, emerge il problema esistenziale della morte che nemmeno la filosofia di Schopenhauer riesce ad alleviare.



In “Tonio Kroger” vive liricamente il dramma di un ragazzo lacerato, diviso tra i valori profondamente familiari e confortanti di un sereno amore per la vita e l’attrazione deliziosamente sublime verso l’artistica capacità di penetrazione negli eventi e nello sconfinato labirinto del mondo dello spirito. Tonio è un escluso, un emarginato e non oggettivamente ma perché tale egli si sente; ama di profondo amore chi è diverso da lui: il biondo compagno di scuola, semplice e concreto, interessato all’aspetto scientifico del sapere, estraneo a Schiller ed ai meandri in cui può sprofondare l’occhio penetrante dell’anima; e Inge, la bionda fanciulla dalla bonaria superficialità vitale che si realizza nel prendere lezioni di ballo e nel vivere la vita senza avvertire il bisogno di analizzarla e di scomporla.

Vivere significa non intellettualizzare e intellettualizzare significa incapacità di vivere tra le “bionde” creature, felici pur nella loro mediocrità esistenziale.

L’antinomia è possente: Tonio infatti ama le “creature bionde” e disprezza se stesso, perché non può che sentirsi un “borghese sviato”, colui che non sta a suo agio in nessuno dei due mondi ed è emarginato tra i figli della vita e insoddisfatto tra gli artisti sviati e antiborghesi.

“Io amo la vita(…) e mai e poi mai potrò concepire che lo straordinario, il demoniaco vengano onorati come ideale. No, la “vita”, intesa quale eterno contrapposto allo spirito e all’arte, non si presenta a noi anomali come anomalia, come una visione di sanguinosa grandezza o di bellezza selvaggia, no, il regno delle nostre aspirazioni è proprio la normalità, la decenza, l’amabilità, insomma la vita nella sua banalità seducente”. ( op. cit.).

Tonio non è più un borghese, ma non ha cessato di esserlo. “Ammiro coloro” dirà “che, fieri e impassibili spregiando l’uomo, si avventurano sui sentieri che guidano alla grande demoniaca bellezza: ma non li invidio. Perché, se qualcosa è realmente in grado di da fare di un letterato un poeta, è appunto questo mio borghese amore per l’umano, il vivo e l’ordinario. Ogni calore, ogni bontà, ogni sorriso proviene da esso”. ( Thomas Mann, op. cit.)

Nel suo amore per la normalità, Tonio riscatta se stesso e la borghesia dagli eccessi dell’arte, è un “borghese sviato” sì, ma è un borghese che si salva attraverso il rifiuto d un morboso attaccamento all’abnorme.

L’arte in sostanza è salva: per suo merito il normale, il sano, l’equilibrato non sono oggetto di disprezzo ma di disperata nostalgia e in questo anelito nostalgico di possesso, sta la salvezza di Tonio e quindi dell’artista.



Il conflitto, apparentemente risolto, torna nella “Morte a Venezia”, breve romanzo di cui, in origine, la Montagna Incantata doveva essere solo un’appendice.

Siamo ancora in un clima di morte: tisi o colera fa lo stesso, e anche qui, come nella Montagna, il paesaggio diventa stato d’animo e l’atmosfera, impregnata di odori malsani, induce allo scatenarsi di orge dionisiache, dove il gusto del proibito si affaccia prepotente. L’artista che, con faticoso impegno, si è elevato a educatore, a cultore della severa e pura legge formale, impregnato di “estetismo etico”, scopre, attraverso l’abbandono all’avventura vitale, che la forma dopo tutto ha due facce essendo nel contempo morale ed immorale, capace di asservire ogni moralità sotto il suo scettro dispotico.

Pessimistica conclusione per l’artista che, se in Tonio Kroger salvava il suo “essere diverso” attraverso l’umana nostalgia per la vita, qui “muore” fisicamente ma soprattutto simbolicamente, nella considerazione della sua incapacità a porsi come educatore di giovani.

Malattia e morte sono private di qualunque funzione positiva: esse preludono al dissolvimento dei valori, alla decadenza morbosa; arte non coincide con educazione, Goethe e il suo insegnamento sono lontani e il volgere le spalle ai valori borghesi un volgare tradimento, con il conseguente riacutizzarsi di una profonda tensione tra ciò che si era e ciò che ora si è.

Le emozioni morbose sono malattia che prelude alla morte e l’artista è ancora un emarginato che solo illusoriamente può interpretare la vita utilmente produttiva.

Dobbiamo aspettare La Montagna Incantata perché certe premesse giungano a piena maturazione.



La Montagna Incantata



Se all’epoca di Morte a Venezia la malattia ridicolizza e distrugge il protagonista, se essa è il mezzo attraverso il quale colui che istruiva ed educava la gioventù con la sua arte soggiace ad un frenetico sogno di dissolutezza e di passione, nella Montagna Incantata la malattia è per il protagonista ansia di conoscenza e ricerca di umanità.

Thomas Mann ha impiegato dodici anni per comporre questo monumentale lavoro che rappresenta il massimo della speculazione filosofica sulla malattia e soprattutto sulla morte, speculazione che in termini più specifici egli conduce contemporaneamente con l’attività saggistica.

Il nuovo astro, Goethe, troneggia come modello pedagogico, filosofico, letterario ed umano.

La morte si preannuncia satura di novità spirituali fin dalle prime righe, in cui Mann descrive lo stato d’animo del protagonista nei confronti del nonno defunto.

“ Con una espressione di severa pace sul volto mutato, col naso appuntito dalla lotta sostenuta, egli giaceva sul suo letto di parata(…). Poiché era già la terza volta in così pochi anni che la morte impressionava lo spirito ed i sensi – specialmente i sensi – del piccolo Giovanni Castorp, tale vista e tale impressione non gli erano più nuove (…). Con la morte andava congiunta una circostanza più significativa, tristemente bella, vale a dire una circostanza spirituale e nello stesso tempo un’altra completamente diversa, addirittura opposta, molto corposa, molto materiale che non si poteva designare né come bella né come significativa(…). Colui che giaceva là disteso o meglio ciò che giaceva là disteso non era il nonno, era un involucro fatto - come Giovanni Castorp sapeva – non di cera ma della sua propria materia. Questa era la circostanza sconveniente e tanto poco triste come ogni cosa che ha attinenza con il corpo e soltanto con esso”. Ma “la circostanza solenne e spirituale aveva la sua espressione nel modo pomposo con cui era composto il cadavere, nella magnificenza dei fiori e dei rami di palma i quali, com’è noto, significano la pace celestiale” ( Thomas Mann: La Montagna Incantata).

Solennità spirituale, e mi viene da pensare alla descrizione dell’ultimo cammino di Schiller, nel saggio a lui dedicato, mentre “negli alberi e nelle travature della vicina chiesetta rumoreggiava il vento”, quasi a supplire al silenzio delle campane che non rintoccano, non salutano chi si dematerializza per diventare spiritualità evanescente, chi sta per accedere alle vette cui il suo genio sofferto ha potuto destinarlo…

E materialità corporea che impressiona solo i sensi, che non ha bellezza né significato se non quello di essere cessazione di qualcosa che ha smesso di essere esistenza per diventare rigidità cadaverica, pronta alla decomposizione.

Alla duplicità della morte corrisponde una duplicità della malattia. Nel 1923, un anno prima che Mann pubblicasse la M.I. era uscito il saggio “Goethe e Tolstoj”, che annuncia, filosoficamente parlando, alcuni temi tipici del grande romanzo.

Nel paragrafo Malattia quest’ultima assume un doppio volto e un doppio rapporto con l’umanità e la dignità. La malattia diventa nemica della dignità dal momento che mette in risalto l’elemento corporeo e, gettando l’uomo nei confini del corpo, lo disumana e lo tende appunto semplice corpo. Dall’altro lato la malattia è però in fondo degna dell’uomo: essa è spirito, spirito è opposizione logica alla natura, perché tende a sciogliersi da lei, a razionalizzare. Lo spirito, dunque la malattia, contraddistingue l’uomo che si sente “sciolto” dalla natura, diversamente da tutti gli altri esseri organici. Sciolto dalla natura e malato coincidono. L’uomo è dunque un “animale malato”, colui che, in grazia del suo spirito e quindi della sua capacità di essere “malato” si oppone alla natura.

La posizione di Mann sembra ora profondamente cambiata: Giovanni Castorp, il nuovo protagonista, non è un eroe. Intanto è molto meno precisabile come personaggio e, non a caso, viene definito un giovane “einfacher”, un uomo qualunque. Castorp è un individuo, un tedesco, e però interessante, perché gli accade una storia, ossia una vicenda spirituale degna di essere narrata…e nello stesso tempo è il tedesco, ossia il popolo tedesco, con certe caratteristiche etniche particolari.

Il cugino Gioachino gli fa da controfigura: si riproduce così la solita antinomia manniana. Gioachino è tedesco in maniera semplice e non pericolosa ( non “spiritualmente” pericolosa) con il suo amore per il dovere militare, con il suo arrossire di fronte alle intimità messe a nudo, con il suo normale desiderio di guarire, di tornare in pianura; Giovanni è un tedesco interessante, destinato a sperimentare le contraddizioni del sapere, è l’essere animale malato, l’umana incarnazione dello spirito di fronte alla natura.

“Da un lato l’esigenza di un equilibrio borghese e dignitoso(…), dall’altro l’eccitazione febbrile della malattia, che significa dissoluzione della volontà e della disciplina, voluttà di esperienze libere e avventurose”.

Non in Gioachino vive l’anima tedesca per eccellenza, il fervore mistico di quel romanticismo che assale con i suoi impeti, che divora con la sua sfrenata voluttà musicale l’anima ansiosa di eccitamenti cerebrali, che diffonde il torbido fascino delle tenebre, che ama la notte, il mistero e la morte come degni di estremo rispetto.

Castorp è pericoloso, pericoloso è il suo lasciarsi tentare… ma in questo preciso momento storico che precede la prima guerra mondiale, epoca in cui i valori borghesi sono crollati ma non altri li hanno sostituiti e nel mondo produttivo dilaga il capitalismo è più che mai necessario capire.

Mann si chiede ancora una volta dove collocarsi: le opinioni gli urgono nel petto, i dissidi non sono ancora risolti e la problematica che caratterizzò lui, borghese sviato, si è allargata, ha abbandonato la dimensione autobiografica per diventare interrogativo più vasto.

Nella Montagna Incantata si fondano mirabilmente il motivo filosofico e quello politico.

Nel primo caso troviamo come le fondamentali antitesi mangiane si siano risolte nell’unico grande dissidio tra il razionale e l’irrazionale; tra illuminismo salutare e romanticismo patologico. Il motivo politico è vivo nella coscienza di chi si sta avviando ormai sul sentiero della democrazia, attraverso la ricerca, profondamente sentita, di un umanesimo nuovo, che offra ancora la possibilità di non cadere in un totalitarismo nefando, che tarpa le ali a chi crede in un universo totale.

Il motivo filosofico e quello politico confluiscono nel fondamentale motivo pedagogico.

Come Mann stesso scrive in “Lubecca come forma di vita spirituale” egli si propone, nella Montagna Incantata, di rinnovare il vecchio “Bildungsroman”, prodotto tipico dell’età borghese tedesca, di cui il migliore esempio era stato Guglielmo Meister.

“Ma come romanzo pedagogico, forma nella quale si presentava al pubblico dei lettori, Der Zauberberg esprimeva un’atmosfera rarefatta, un senso di compressione dello spazio e di dissoluzione del tempo, che mancavano al suo prototipo picaresco Wilhelm Meister e tracciava una ricerca della saggezza attraverso il metodo dialettico caro a quattro generazioni di pensatori tedeschi: due autonominatisi precettori lottavano per l’anima di un figlio della più comune borghesia, giunto loro per caso dal mondo dell’attività pratica” ( H. Stuart Hughes, Coscienza e Società).

Georg Lukacs precisa in quale modo Mann sia da considerare educatore. Il suo intento è soprattutto quello di precisare l’atteggiamento di Mann verso la borghesia che, a suo avviso, costituisce la base di tutta la sua attività. Per Lukacs Mann è un realista genuino, capace di offrire con la lealtà la sua Germania borghese, nel momento del suo crollo e con la speranza della sua rinascita.

“Il maturo scrittore Thomas Mann è un educatore sui generis (…). Egli non è un educatore che voglia inculcare ai suoi alunni dal di fuori una dottrina, per quanto profonda e laboriosamente e giustamente acquisita: egli è un educatore nel senso della anamnesi platonica. L’alunno stesso deve scoprire il nuovo nella propria anima e far sì che essi diventi esperienza. Thomas Mann, divenuto educatore del proprio popolo, cerca ormai il borghese in maniera più approfondita. La sua ricerca ha ora un contenuto concreto: cerca lo spirito della democrazia nell’anima del borghese tedesco, ma ricerca le tracce e gli indizi per destarli e levarli ad esempio nella sua creazione artistica, non vorrebbe avvicinargli questo spirito della democrazia come un contenuto estraneo, ma far sì che lo scoprisse da solo come proprio contenuto vitale ritrovato “

( Georg Lukacs, Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna)

Secondo Lukacs, infatti, Mann è uno scrittore rappresentativo del suo popolo in una maniera particolare: egli cioè coglie precisamente lo spirito della borghesia tedesca alla quale appartiene saldamente e alla quale tuttavia si oppone, combattendone i germi negativi e ricercando quanto in essa può trasformarsi in senso positivamente socialista.

La storia di cui si parla nella Montagna Incantata è molto più vecchia dei suoi anni è una età che “non si può misurare in giorni né in lune, in una parola essa non deve veramente la sua maggiore o minore antichità al tempo (…) e la sua estrema antichità è data dal fatto che essa avviene prima del limitare di un certo abisso che ha interrotto la vita e la coscienza dell’umanità…” ( Thomas Mann, M.I.)

Così si legge nell’introduzione: sono passati pochi anni da quando è avvenuta la Grande Guerra, ma troppe cose sono cambiate nella Germania sconfitta e soprattutto in coloro che attribuiscono una parte di colpa di tale amara sconfitta all’atteggiamento profondamente apolitico dei tedeschi, che può renderli storicamente vittime e carnefici in eguale misura.

E solo attraverso il grande affresco del romanzo pedagogico, è possibile gettare sull’universo rappresentato uno sguardo totale.



Il romanzo pedagogico



Il romanzo pedagogico solitamente inizia con un viaggio, perché il viaggio significa separazione da qualcosa e, conseguentemente, ricerca, di significati e di risposte.

Durante il viaggio, ogni avvenimento anche piccolo si riveste di importanza, perché diventa esperienza. Fuori dal proprio ambiente, distaccato spiritualmente e psicologicamente dal proprio terreno, colui che “è” fuori si trova in una particolare situazione interiore: è disposto ad accogliere, a ricevere informazioni, a lasciarsi trasportare da situazioni nuove. Naturalmente il viaggiatore/allievo tende ad assorbire quanto può far presa sulle sue attitudini particolari: diventa così il primo agente di trasformazione di se stesso e dunque è più corretto parlare di autoeducazione o autoformazione.

Secondo quanto Mann scrive nel suo saggio su Goethe, la tendenza autobiografica dello scrittore, giungendo attraverso la confessione alla autoeducazione dell’individuo, si volge all’esterno, diventando educativa. “La vocazione educativa del poeta scrittore può definirsi come una problematicità che vuol confessarsi, come qualche cosa di non comune, e che tuttavia è destinato a diventare un’espressione tipica di ciò che, dal punto di vista umano, è universale (…). Brevemente formulando potrebbe dirsi: lo scrittore è l’educatore che si è formato per mezzo delle più singolari esperienze e la cui educazione va di pari passo con la lotta contro se stesso. È un confluire della vita interna con l’esterna, un contrastare con il proprio “io” e nello stesso tempo con il mondo. Un’educazione che voglia essere puramente obiettiva, che parta dal presupposto della propria formazione, non è invece che vuota pedanteria” ( Thomas Mann, Goethe scrittore in Nobiltà dello Spirito).

Il pensiero dell’educazione è per Mann l’espressione più alta dell’amore dello spirito verso la vita. Lo scrittore si confessa: al suo personaggio, che viaggia simbolicamente, offre le esperienze intellettuali e umane che lui stesso ha potuto fare, prestando le proprie convinzioni ora all’uno ora all’altro dei pedagoghi, così come lui stesso scrittore la ha attinte da svariate fonti, nel corso della sua vita formativa.

Il “suo” personaggio volge il capo qua e là come lui stesso faceva: prova a scegliere e prova a rifiutare, è trascinato e subito dopo respinto; è affascinato e poi indispettito dal sofistico relativismo delle dispute di cui è testimone. Ma nessuno di coloro che tentano di guadagnarlo alla propria causa riesce infine ad avere la meglio: il personaggio principale è lui, che sta formando se stesso e che ha diritto alla scelta finale, o alla non scelta.

Il viaggio, che significava separazione da qualcosa, può anche concludersi con una non soluzione, accompagnata dalla certezza che le possibilità di riflessione esistenziale sono infinite.

Lo scrittore confessa la sua vicenda spirituale, racconta come è diventato tale, e lo fa in chiave simbolica: è naturale che in tal modo le cose, i fatti, le persone, gli avvenimenti siano accarezzati dal tocco leggero dell’ironia, l’assurdo e il grottesco giocano ruoli fondamentali, i paesaggi si modellano in maniera pregnante agli umori e preparano le novità; le ripetizioni di concetti e frasi o parole assumono valore, così come nelle sinfonie musicali capita ai motivi conduttori.

Tratteggiando gli aspetti essenziali del “romanzo pedagogico”, Fabrizio Ravaglioli spiega che nella storia vi sono degli atti che si ripetono infinite volte, in mille variazioni. Se un primo atto è rappresentato dalla visione di un’origine felice, un secondo rappresenta l’esperienza della solitudine. Atto tragico, a cui segue la separazione e quindi la caduta nell’abisso, da cui saggiamente ci si può rialzare, se si ascoltano gli ammonimenti dei saggi. Il romanzo pedagogico sarebbe attratto dal secondo momento, quello della separazione: e difatti chi è rappresentato è il giovane che lascia la casa e va nel mondo, incontro a seduzioni fisiche, morali e intellettuali.

Nel mondo allegorico di Tolkien, Frodo parte da casa portando con sé l’Anello del Potere da bruciare sul Monte Fato, e in quello di Andersen Gerda raggiunge la cima del mondo, attraversando “situazioni” allegoriche di ogni genere, allo scopo di salvare Kai dalla scheggia di vetro diabolico…e dal suo viaggio tornerà adulta, maturata dall’esperienza del dolore e degli ostacoli da superare.

Vediamo cosa scrive Mann stesso nel paragrafo “Arrivo”. “Due giornate di viaggio allontanano l’uomo ( e specialmente il giovane che non ha ancora salde radici nella vita) dal suo solito mondo, da ciò che egli chiama i suoi doveri, i suoi interessi, le sue preoccupazioni e aspirazioni, lo allontanano più di quanto egli stesso abbia potuto immaginarselo durante il tragitto in carrozza da casa alla stazione. Lo spazio che ruzzola via fuggendo tortuoso e si interpone fra lui e il suo luogo di residenza ha in sé forze che di solito si credono riservate al tempo; d’ora in ora esso dà origine a interni mutamenti, molto somiglianti a quelli generati dal tempo ma che in certo qual modo li sorpassano. Come quest’ultimo genera dimenticanza, ma lo fa sciogliendo la personalità dell’individuo dai suoi rapporti e ponendolo così in una situazione libera e iniziale; perfino del pedante e del grasso borghese esso fa in un volger di mano qualcosa come un vagabondo.

Si dice che il tempo è il Letè, ma anche l’aria delle lontananze è un’acqua simile e se i suoi effetti hanno minore intensità, sono però di tanto più rapidi ( Thomas Mann, M.I.).

Acqua della dimenticanza: il Letè nel quale si tuffa il pellegrino per purificarsi e ricominciare. E “lo spazio che ruzzola via fuggendo tortuoso” può rappresentare ogni meandro vitale in cui si cela una nuova possibilità, il punto di partenza per un nuovo momento, spazio vitale che modificandosi di passo in passo, sposta anche le prospettive e acutizza la capacità di penetrazione nell’ignoto, priva della sicurezza e offre l’avventura e con essa la possibilità di cadere e insieme quella di rialzarsi redenti. Ma, spiega ancora Ravaglioli, la redenzione finale fa parte di un programma filosofico ascetico- medioevale, quello in cui si lotta e ci si barcamena sotto il segno della rinuncia terrena, in vista del premio futuro.

Castorp è un protagonista, più che un eroe, del XX secolo, momento in cui appare molto difficile approdare a una comprensione del reale, conciliando le antitesi.

Ma chi è Hans Castorp? Vediamo subito come lo definisce Mann stesso nel paragrafo “In casa Tienappel. E della situazione morale di Giovanni Castorp”.

“Nessuno poteva dubitare che Giovanni Castorp non fosse un prodotto genuino del suolo locale ed occupasse brillantemente il suo posto nel mondo (…). Egli respirava l’atmosfera della grande città marinara, quella umida atmosfera di traffico e di benessere che era stata la gioia dei suoi padri, in profonda armonia con essa, la respirava come una cosa naturale ed anche con piacere. Con l’odorato pregno d’esalazioni d’acqua, di carbone, di catrame e dell’odor di coloniali ammonticchiati, egli vedeva sulla banchina del porto mostruose gru che spiegavano la servizievole intelligenza (…). In questo era un genuino prodotto del suo suolo, nel fatto cioè ch egli amava vivere bene, anzi, nonostante il suo aspetto raffinato ed anemico, era attaccato profondamente e internamente ai godimenti buoni e solidi della vita, come un buon lattante si attacca avidamente al seno della madre. Portava sulle spalle comodamente e non senza una certa aria dignitosa l’alta civiltà che la classe dirigente della democrazia cittadina dei commercianti aveva lasciato in eredità ai suoi figli (…). Giovanni Castorp non si poteva chiamare né un genio né uno sciocco, tuttavia noi non lo chiameremo mediocre, e ciò per motivi che non hanno nulla a che vedere né con la sua intelligenza né con la sua semplice persona, ma per rispetto al suo destino cui siamo inclini ad ascrivere un certo significato super-personale. La sua intelligenza bastava, senza soverchie fatiche, alle esigenze del ginnasio. Del resto egli non era mai propenso alla fatica, in nessuna circostanza e per nulla al mondo. E ciò non tanto per il timore di farsi male, quanto perché non vedeva alcun motivo che ne valesse la pena. Per esprimerci più esattamente diremo che non vedeva alcun motivo imprescindibile per giustificare l’impiego eccessivo di forze, ossia la fatica. Ecco perché non vorremmo chiamarlo mediocre, perché in qualche modo egli intuiva la mancanza di tali motivi. L’uomo non vive soltanto la sua vita personale come individuo singolo ma, consapevolmente o inconsapevolmente, vive anche quella della sua epoca e del suo ambiente (…) e quando l’elemento impersonale che lo circonda, l’epoca stessa, nonostante tutta l’operosità esteriore manca in fondo di speranze e di mete(…), non mancherà di produrre un certo effetto debilitante specialmente in persone di natura semplice e schietta, indebolimento che può espandersi dalla psiche anche alla parte fisica e organica degli stessi( Thomas Mann, M.I.).



Castorp è dunque un giovane comune, ma non un mediocre; gli accade una storia “hegelianamente intesa”, cioè non nel senso di accadimento nello spazio e nel tempo, ma come racconto, storia narrata. Un giovane tedesco che non ama il lavoro, ma lo rispetta: si tratta di quel tipico rispetto di natura religiosa e morale che non esclude l’intima partecipazione emotiva. Egli non possiede né “solitudine morale” né “vitalità esuberante”¨un buon sigaro, tempo libero e scevro da fatiche e silenzio dentro costituiscono il suo terreno naturale. L’epoca in cui vive non offre scopi né speranze. Castorp è però diverso dagli altri, nonostante sia un giovane qualunque. La sua psiche indebolita, causa l’atmosfera dell’epoca, ha indebolito la sua parte fisica e organica, rendendolo preda del Male.

Ma cosciente di una sua non totale aderenza alla “pianura”, egli parte, si allontana, diretto a Davos, nel Canton dei Grigioni, per restare tre settimane in compagnia del cugino Gioachino ospite del sanatorio Berghof.

Tre settimane che si trasformeranno in sette anni, proprio come nelle favole…in compagnia delle fragili Ombre che popolano la montagna, segnate dal male, votate alla dissoluzione e alla decomposizione, estranee alla vita, prigioniere della valle dell’Incantesimo dove non v’è inizio né fine ed il prima e il poi, incontrandosi, danno il sempre e l’eterno in un anarchico abbandono del tempo a se stesso.

Egli è ormai nel mondo della conoscenza: in un primo momento frettoloso di riassumere il suo ruolo di cittadino e di professionista, è però profondamente avvinto, trascinato da una forza latente sui sentieri pericolosi dell’inazione, dove le opinioni anelano ad una loro autonomia, ad una canalizzazione.

Il mondo della conoscenza è dualistico e gli estremi si combattono senza tregua, ma una scelta appare nemica dell’umano oscillare, di fronte a Chi forse soltanto è “al di là del bene e del male”.

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