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Biografia Arturo Martini
Arturo Martini
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Arturo Martini (Treviso 1889 - Milano 1947). Figura dominante nella scultura tra le due guerre è quella di Arturo Martini che, nato a Treviso nel 1889, dopo aver frequentato lo studio dello scultore conterraneo Antonio Carlini (1906) ed aver lavorato presso fabbriche di ceramica (e da tale giovanile esperienza derivò forse la sua predilezione a modellare in creta e in gesso, che doveva manifestarsi più tardi in alcuni capolavori), fu a Venezia dove scoprì la plastica di Medardo Rosso, e quindi a Monaco (1910) dove seguì le lezioni di Adolfo Hildebrand studiando su modelli la scultura antica e del Rinascimento. Ma ben più significativa del sobrio accademismo dello scultore tedesco dovette essere per lui in Germania la notizia degli artisti - pittori e scultori - del gruppo della «Brucke» (il ponte) e del loro violento espressionismo di cui è un riflesso, unito ad un gusto lineare ancora di ascendenza «Liberty», nella terracotta dipinta della Prostituta (Venezia, Museo d'arte moderna) del 1913. Nel 1911-12 soggiornò a Parigi dove conobbe la scultura del Maillol e la grafica dei «Nabis»: quivi, nel ' 12, espose al Salon d'Automne insieme col De Chirico, col Boccioni, col Modigliani e col pittore veneziano Gino Rossi col quale aveva già amicizia e comunanza di interessi artistici. Delle teste di Modigliani è forse una tenue traccia nell'impianto su lungo collo cilindrico della Fanciulla piena d'amore (Venezia, ibidem) del 1913, una maiolica dorata che nella politezza degli integri volumi si ricollega addirittura al Wildt, mentre più immediata appare nello stesso anno l'influenza dell'«Antigrazioso» del Boccioni nel ritratto in gesso di Omero Soppelsa (Venezia, collez. Soppelsa). Di fronte a queste e ad altre opere giovanili si ha l'impressione di un artista di talento che attraverso diverse suggestioni culturali vada irrequietamente cercando la sua strada interpretandole con una tendenza verso una deformazione ardita fino al limite del grottesco dovuta. più che ad una astratta ricerca stilistica, ad una aggressività di umore e sincerità popolari, del resto consona alle sue umili origini sociali (il padre era cuoco, i fratelli imbianchini e quanto agli studi egli non andò oltre la terza elementare, dopo aver ripetuto tre volte la seconda). La vera storia del Martini ha inizio dopo il suo congedo dal servizio militare da lui prestato, però non in zona di guerra, dal 1916 al '19. Nel 1920 infatti tiene a Milano la sua prima «personale» presentata dal pittore Carlo Carrà che su di lui eserciterà, specialmente nel corso degli anni Venti, un notevolissimo ascendente nel senso di una essenzialità volumetrica e di una estrema semplificazione nel modellato di cui era già nel 1918 uno straordinario documento il busto in gesso della Ragazza verso sera (Venezia, Museo d'arte moderna). È in questo periodo che il Martini entra a far parte del gruppo formatosi intorno alla rivista «Valori plastici» fondata nel ' 18 dal pittore Mario Broglio che si proponeva una sorta di «richiamo all'ordine» ispirato all'arte del Trecento e del primo Rinascimento, tuttavia in forma non sterilmente accademica (tra i suoi principali esponenti troviamo infatti artisti diversissimi come, oltre al Carrà, Alberto Savinio, Giorgio De Chirico, Giorgio Morandi, Roberto Melli). Così, se in alcuni busti e teste del Martini (Il poeta Cechov del '21, Lo zio del '23, Il chirurgo del '27) si richiamano nell'incisività grafica dei particolari i procedimenti della metallurgia dei busti-reliquiario medievali, in altri dello stesso periodo (La figlia del pescatore del '20) la forma tende ad una calibrata sintesi per la quale è stato fatto il nome del quattrocentesco Laurana, mentre nei rilievi, come quello grande in pietra di Orfeo (1922 - Roma, Galleria Nazionale d'Arte Moderna) affiora il ricordo delle formelle di età romanica. È per altro da avvertire che tali ed altri richiami all'antico che caratterizzeranno anche in seguito la scultura del Martini sono inseparabili dalla sua ansia di rinnovamento, da una «disperata volontà di ricerca, del come considerare l'ieri e l'oggi» (Bellonzi) che fu anche il suo dramma dal quale egli uscì vittorioso, grazie alla sua fortissima personalità, a un ardente temperamento partecipe delle inquietudini e dei problemi del mondo moderno; sì che la sua opera, pur estraniandosi da ogni esperienza di tipo «avanguardistico», appare sostanzialmente novatrice nei suoi esiti formali non meno che nelle sue variatissime tematiche nelle quali la potenza inventiva e l'estro fantasticante si infondono di lirico trasporto. Questo si ravvisa già nel gesso de Le stelle del '20 in cui il motivo della estatica contemplazione è un timido preludio a quello che nel '31 verrà realizzato nel grande, mirabile rilievo del Chiaro di luna (Anversa, Museo Middelheim): ma si veda anche con quale nuova intensità vitale e slancio dinamico egli interpreti in assolutezza di volumi la rigorosa ed alta sintesi formale della pittura, e soprattutto dei disegni, del Carrà nella terracotta del Bevitore (Milano, collez. Jesi) del '26. Col '26 si inizia una serie di capolavori il più famoso dei quali è il Figliuol prodigo, prima sua grande realizzazione in bronzo (Acqui Terme, Ospizio Ottolenghi) nella quale le reminiscenze della scultura trajanea e romanica appaiono mirabilmente fuse e trascese in una temperie di profonda, appassionata umanità che trova la più immediata espressione nel trepidante incontro dei due personaggi, mentre il modellato asciutto e vigorosamente scandito tanto nei loro volti intenti quanto nel torso ignudo del figlio e nella tunica paterna bene si adegua alla nuova struttura monumentale e dinamica dell'opera con la quale «si apre veramente la storia della scultura italiana contemporanea» (De Micheli). Seguono nel '28 lo stupendo nudo in pietra della Pisana (Acqui Terme, collez. Ottolenghi), nel'23-'301a Maternità in legno del Museo Civico di Torino e nel '31 le due grandi figure in terracotta dei Giochi invernali (Anversa, Museo Middelheim) che tra l'altro ci attestano con quale aderenza ed originalità il Martini traesse profitto dalle peculiarità tecniche inerenti al trattamento delle diverse materie. Nello stesso anno (1931) il Martini modellò, oltre al ricordato rilievo del Chiaro di luna, quello, altrettanto grande e immerso in un'aura di magico incanto notturno, del Sogno (Acqui Terme, collez. Ottolenghi). Individuare da questo periodo il senso di uno sviluppo progressivo nella produzione martiniana diviene estremamente arduo perché il possesso di un linguaggio straordinariamente ricco di potenzialità espressive consentì allo scultore di elaborare, senza venir meno ad una fondamentale coerenza di stile che era per lui anche un abito morale, di fedeltà alla sua alta concezione dell'arte, una grande varietà di soluzioni di volta in volta scelte in relazione ai temi nei quali si cimentava ed alla loro destinazione: dai complessi monumentali a più figure ed episodi di intento celebrativo come il Monumento al Duca d'Aosta del '33-'34, di cui restano i bellissimi bozzetti in bronzo essendo stato il relativo concorso vinto da Eugenio Baroni, al grande altorilievo della Giustizia corporativa del '36-'37 per il palazzo di Giustizia di Milano al gruppo degli Sforza del '38-'39 per l'Ospedale del Perdono di Milano ai rilievi per l'Arengario in piazza del Duomo a Milano, del '40-'42, per citare i più noti, che però sogliono essere giudicati con qualche riserva dalla critica per il loro carattere illustrativo e un po' oratorio, ma che tuttavia ci testimoniano con quale potenza d'invenzione il Martini rivivesse eventi e personaggi della storia. Né sono da tacere i diciotto bozzetti da lui distrutti per i rilievi non poi eseguiti del palazzo del Littorio del '37 in cui la storia del fascismo è interpretata in chiave, anziché di enfasi eroicizzante, di dolente e tragica intimità. Se non molti furono i ritratti, costituiscono le più felici prove del suo genio di statutario le figure isolate dove mito e realtà si identificano e tra le quali vanno ricordate almeno, per il rattenuto ma veemente scatto dinamico, la terracotta della Lupa (1931, Anversa, Museo Middelheim) il cui schema compositivo verrà ripreso con nervosa energia e leggerezza nel bronzetto del Centometrista (1935, Venezia, Museo d'Arte Moderna), il Tobiolo (1934, Acqui Terme, collez. Ottolenghi) Arturo Martini Arturo Martini (Treviso 1889 - Milano 1947). Galleria Fotografica Figura dominante nella scultura tra le due guerre è quella di Arturo Martini che, nato a Treviso nel 1889, dopo aver frequentato lo studio dello scultore conterraneo Antonio Carlini (1906) ed aver lavorato presso fabbriche di ceramica (e da tale giovanile esperienza derivò forse la sua predilezione a modellare in creta e in gesso, che doveva manifestarsi più tardi in alcuni capolavori), fu a Venezia dove scoprì la plastica di Medardo Rosso, e quindi a Monaco (1910) dove seguì le lezioni di Adolfo Hildebrand studiando su modelli la scultura antica e del Rinascimento. Ma ben più significativa del sobrio accademismo dello scultore tedesco dovette essere per lui in Germania la notizia degli artisti - pittori e scultori - del gruppo della «Brucke» (il ponte) e del loro violento espressionismo di cui è un riflesso, unito ad un gusto lineare ancora di ascendenza «Liberty», nella terracotta dipinta della "Prostituta" (Venezia, Museo d'arte moderna) del 1913. Nel 1911-12 soggiornò a Parigi dove conobbe la scultura del Maillol e la grafica dei «Nabis»: quivi, nel ' 12, espose al Salon d'Automne insieme col De Chirico, col Boccioni, col Modigliani e col pittore veneziano Gino Rossi col quale aveva già amicizia e comunanza di interessi artistici. Delle teste di Modigliani è forse una tenue traccia nell'impianto su lungo collo cilindrico della "Fanciulla piena d'amore" (Venezia, ibidem) del 1913, una maiolica dorata che nella politezza degli integri volumi si ricollega addirittura al Wildt, mentre più immediata appare nello stesso anno l'influenza dell'«Antigrazioso» del Boccioni nel ritratto in gesso di "Omero Soppelsa" (Venezia, collez. Soppelsa). Di fronte a queste e ad altre opere giovanili si ha l'impressione di un artista di talento che attraverso diverse suggestioni culturali vada irrequietamente cercando la sua strada interpretandole con una tendenza verso una deformazione ardita fino al limite del grottesco dovuta. più che ad una astratta ricerca stilistica, ad una aggressività di umore e sincerità popolari, del resto consona alle sue umili origini sociali (il padre era cuoco, i fratelli imbianchini e quanto agli studi egli non andò oltre la terza elementare, dopo aver ripetuto tre volte la seconda). La vera storia del Martini ha inizio dopo il suo congedo dal servizio militare da lui prestato, però non in zona di guerra, dal 1916 al '19. Nel 1920 infatti tiene a Milano la sua prima «personale» presentata dal pittore Carlo Carrà che su di lui eserciterà, specialmente nel corso degli anni Venti, un notevolissimo ascendente nel senso di una essenzialità volumetrica e di una estrema semplificazione nel modellato di cui era già nel 1918 uno straordinario documento il busto in gesso della "Ragazza verso sera" (Venezia, Museo d'arte moderna). È in questo periodo che il Martini entra a far parte del gruppo formatosi intorno alla rivista «Valori plastici» fondata nel ' 18 dal pittore Mario Broglio che si proponeva una sorta di «richiamo all'ordine» ispirato all'arte del Trecento e del primo Rinascimento, tuttavia in forma non sterilmente accademica (tra i suoi principali esponenti troviamo infatti artisti diversissimi come, oltre al Carrà, Alberto Savinio, Giorgio De Chirico, Giorgio Morandi, Roberto Melli). Così, se in alcuni busti e teste del Martini ("Il poeta Cechov" del '21, "Lo zio" del '23, "Il chirurgo" del '27) si richiamano nell'incisività grafica dei particolari i procedimenti della metallurgia dei busti-reliquiario medievali, in altri dello stesso periodo ("La figlia del pescatore" del '20) la forma tende ad una calibrata sintesi per la quale è stato fatto il nome del quattrocentesco Laurana, mentre nei rilievi, come quello grande in pietra di "Orfeo" (1922 - Roma, Galleria Nazionale d'Arte Moderna) affiora il ricordo delle formelle di età romanica. È per altro da avvertire che tali ed altri richiami all'antico che caratterizzeranno anche in seguito la scultura del Martini sono inseparabili dalla sua ansia di rinnovamento, da una «disperata volontà di ricerca, del come considerare l'ieri e l'oggi» (Bellonzi) che fu anche il suo dramma dal quale egli uscì vittorioso, grazie alla sua fortissima personalità, a un ardente temperamento partecipe delle inquietudini e dei problemi del mondo moderno; sì che la sua opera, pur estraniandosi da ogni esperienza di tipo «avanguardistico», appare sostanzialmente novatrice nei suoi esiti formali non meno che nelle sue variatissime tematiche nelle quali la potenza inventiva e l'estro fantasticante si infondono di lirico trasporto. Questo si ravvisa già nel gesso de "Le stelle" del '20 in cui il motivo della estatica contemplazione è un timido preludio a quello che nel '31 verrà realizzato nel grande, mirabile rilievo del "Chiaro di luna" (Anversa, Museo Middelheim): ma si veda anche con quale nuova intensità vitale e slancio dinamico egli interpreti in assolutezza di volumi la rigorosa ed alta sintesi formale della pittura, e soprattutto dei disegni, del Carrà nella terracotta del "Bevitore" (Milano, collez. Jesi) del '26. Col '26 si inizia una serie di capolavori il più famoso dei quali è il "Figliuol prodigo", prima sua grande realizzazione in bronzo (Acqui Terme, Ospizio Ottolenghi) nella quale le reminiscenze della scultura trajanea e romanica appaiono mirabilmente fuse e trascese in una temperie di profonda, appassionata umanità che trova la più immediata espressione nel trepidante incontro dei due personaggi, mentre il modellato asciutto e vigorosamente scandito tanto nei loro volti intenti quanto nel torso ignudo del figlio e nella tunica paterna bene si adegua alla nuova struttura monumentale e dinamica dell'opera con la quale «si apre veramente la storia della scultura italiana contemporanea» (De Micheli). Seguono nel '28 lo stupendo nudo in pietra della "Pisana" (Acqui Terme, collez. Ottolenghi), nel'23-'301a "Maternità" in legno del Museo Civico di Torino e nel '31 le due grandi figure in terracotta dei "Giochi invernali" (Anversa, Museo Middelheim) che tra l'altro ci attestano con quale aderenza ed originalità il Martini traesse profitto dalle peculiarità tecniche inerenti al trattamento delle diverse materie. Nello stesso anno (1931) il Martini modellò, oltre al ricordato rilievo del "Chiaro di luna", quello, altrettanto grande e immerso in un'aura di magico incanto notturno, del "Sogno" (Acqui Terme, collez. Ottolenghi). Individuare da questo periodo il senso di uno sviluppo progressivo nella produzione martiniana diviene estremamente arduo perché il possesso di un linguaggio straordinariamente ricco di potenzialità espressive consentì allo scultore di elaborare, senza venir meno ad una fondamentale coerenza di stile che era per lui anche un abito morale, di fedeltà alla sua alta concezione dell'arte, una grande varietà di soluzioni di volta in volta scelte in relazione ai temi nei quali si cimentava ed alla loro destinazione: dai complessi monumentali a più figure ed episodi di intento celebrativo come il "Monumento al Duca d'Aosta" del '33-'34, di cui restano i bellissimi bozzetti in bronzo essendo stato il relativo concorso vinto da Eugenio Baroni, al grande altorilievo della "Giustizia corporativa" del '36-'37 per il palazzo di Giustizia di Milano al gruppo degli Sforza del '38-'39 per l'Ospedale del Perdono di Milano ai rilievi per l'Arengario in piazza del Duomo a Milano, del '40-'42, per citare i più noti, che però sogliono essere giudicati con qualche riserva dalla critica per il loro carattere illustrativo e un po' oratorio, ma che tuttavia ci testimoniano con quale potenza d'invenzione il Martini rivivesse eventi e personaggi della storia. Né sono da tacere i diciotto bozzetti da lui distrutti per i rilievi non poi eseguiti del palazzo del Littorio del '37 in cui la storia del fascismo è interpretata in chiave, anziché di enfasi eroicizzante, di dolente e tragica intimità. Se non molti furono i ritratti, costituiscono le più felici prove del suo genio di statutario le figure isolate dove mito e realtà si identificano e tra le quali vanno ricordate almeno, per il rattenuto ma veemente scatto dinamico, la terracotta della "Lupa" (1931, Anversa, Museo Middelheim) il cui schema compositivo verrà ripreso con nervosa energia e leggerezza nel bronzetto del Centometrista (1935, Venezia, Museo d'Arte Moderna), il "Tobiolo" (1934, Acqui Terme, collez. Ottolenghi) dalle efebiche membra guizzanti sotto la tersa politura del bronzo che contrasta con la scabra superficie del "Bevitore" (Roma, Galleria Nazionale d'Arte Moderna) rudemente scolpito lo stesso anno nella pietra di Finale e il "Tito Minniti" in bronzo (1936, Roma, ibidem). Dal 1937 si fecero frequenti i soggiorni dell'artista a Carrara dove nell'antico laboratorio dei Nicoli si appassionò alla tecnica del marmo: quivi scolpì nel '41 con grande magistero la celeberrima "Donna che nuota sott'acqua" di arditissima fantasia e composizione nel groviglio delle membra che appena aderendo al corpo, sì da dar luogo ad una forma linearmente conclusa, sembrano sospingerlo in alto con leggero moto roteante, e nel '42 il "Monumento a Tito Livio" (Padova, Università) immaginato nell'atto di leggere inginocchiato con un gomito puntato su un plinto che accentua la possente squadratura quasi cubica del blocco entro il quale con lenta torsione e in continuità di ritmi si articola in diagonale l'atletico torso del personaggio e si scavano le rudi pieghe rettilinee del sottostante panneggio. Ma già a quell'epoca cominciavano a delinearsi nello spirito, più che nell'arte, del Martini i primi sintomi di una crisi motivata dalla sua intima insoddisfazione e dalla convinzione che l'impegno politico-sociale richiesto alla scultura si estraniava dai miti e dalle favole che avevano alimentato la sua fantasia: onde nel 1945 pubblicò un volumetto dal titolo polemico La scultura lingua morta, le cui idee furono però da lui rinnegate non soltanto dal successivo proposito di far seguire un altro scritto La statuaria è morta ma la scultura vive, ma anche, e soprattutto, col trasfigurare l'immagine del "partigiano Masaccio" nel mito virgiliano di "Palinuro", il timoniere adolescente della nave di Enea che precipitò in mare guardando affascinato le stelle. È il suo ultimo capolavoro scolpito in marmo nel '46 per l'Università di Padova: il 22 marzo dell'anno dopo (1947) infatti l'artista, nella cui opera è stato ravvisato il destino di tanta scultura italiana del nostro secolo, moriva improvvisamente a Milano.

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