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Biografia Gaetano Salvemini
Gaetano Salvemini
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Gaetano Salvemini, storico, professore universitario a Messina, Pisa, Firenze e Harvard, meridionalista ed antifascista, nacque a Molfetta (Bari), l'8 settembre 1873. Lo zio prete, che gli fece da precettore, tentò di inculcargli idee clericali ed antiunitarie, ma Egli mostrò presto inclinazioni democratiche e libertarie. A diciassette anni ottenne l'ammissione all'Istituto di Studi Superiori di Firenze. Nell'ateneo fiorentino ebbe come maestro, fra gli altri, Pasquale Villari, docente di Storia Medioevale e Moderna, dal quale apprese un insegnamento fondamentale, che avrebbe serbato per tutta la vita: la concezione della Storia intesa come scrupolosa ricerca del vero, strettamente congiunta all'impegno civile. A Firenze, dove si laureò in Lettere nel 1896, si legò al gruppo dei giovani socialisti che si riunivano in Via Lungo il Mugnone. In quell'ambiente assorbì le teorie marxiste, che in seguito avrebbe rivisto criticamente, e maturò una precisa ed irreversibile scelta di campo: la difesa degli oppressi e dei diseredati, al di là di ogni ideologia. Nell'ultimo decennio dell'800, l'epoca che vide i tentativi autoritari di Crispi e Pelloux, i processi sommari a carico dei "sovversivi" socialisti, la brutale repressione delle agitazioni operaie e contadine, era una scelta davvero coraggiosa. Nel 1899, a soli ventisei anni, Salvemini pubblicò un'opera destinata a diventare un classico della storiografia sul Medioevo: "Magnati e popolani nel Comune di Firenze dal 1280 al 1296". La sua attività scientifica gli valse la cattedra di Storia Medioevale e Moderna all'Università di Messina (1902). Ma il destino gli preparava una tremenda sciagura, che avrebbe annullato la serenità assicurata da una brillante carriera accademica e da un matrimonio felice. Nel terremoto del 1908, che rase al suolo Messina, perse la moglie, i cinque figli ed una sorella. Fu la grande tragedia della vita personale di Gaetano Salvemini. Il dolore provocato da quell'evento tragico non riuscì, tuttavia, a spezzare la sua tempra eccezionale. Continuò nel PSI la sua battaglia politica, incentrata sul tentativo di saldare le rivendicazioni degli operai del Nord con quelle dei braccianti del Sud. Si battè, inoltre, per l'introduzione e per l'esercizio effettivo del suffragio universale, votato dal Parlamento nel maggio 1912. La sua lotta per la moralizzazione della vita pubblica lo portò a criticare aspramente Giovanni Giolitti, Presidente del Consiglio quasi ininterrottamente dal 1903 al 1914, cui affibbiò l'epiteto di "ministro della malavita" per i suoi spregiudicati metodi elettorali. Dalle pagine innovatrici del periodico "La Voce", si oppose fieramente alla dispendiosa campagna di Libia (1911-1912). Salvemini aveva compreso che all'origine di quell'impresa militare non stava la volontà di soddisfare le reali esigenze del Paese, bisognoso di profonde riforme economiche e sociali, ma una pericolosa collusione fra nazionalismo velleitario ed interessi imprenditoriali. La questione della Libia fu uno dei motivi che lo indussero a lasciare il PSI, giudicato troppo acquiescente nei confronti della politica coloniale giolittiana ed incapace di un serio impegno sulla questione meridionale. Sul settimanale "l'Unità""', da lui stesso fondato nel dicembre 1911, continuò la sua battaglia laica e progressista per il riscatto del Meridione e per una reale svolta democratica. Nel grande travaglio che precedette l'entrata dell'Italia nella Grande Guerra (maggio 1915), Salvemini fu tra i fautori dell'intervento contro l'Austria e l'imperialismo tedesco. La sua coerenza morale gli impose di arruolarsi volontario sin dal primo anno di guerra. Per lui, come in generale per gli interventisti democratici, la partecipazione al conflitto era necessaria non certo per affermare ed espandere la potenza italiana, ma per scopi molto più nobili: completare l'opera di unificazione nazionale ed avviare un processo di effettiva democratizzazione della vita politica, in Italia ed in Europa. Purtroppo, gli eventi successivi all'armistizio (novembre 1918) delusero le speranze degli idealisti. Il Governo italiano, guidato da Vittorio Emanuele Orlando e dal Ministro degli Esteri Sidney Sonnino, si comportò al Congresso di Versailles in modo non lineare e difese il "sacro egoismo" nazionale contro il principio dell'autodeterminazione dei popoli. Alle elezioni politiche del 1919 Salvemini si candidò in una lista di ex combattenti e venne eletto. Da deputato, dissentì presto dalla linea politica del suo gruppo parlamentare e sostenne una vivace polemica contro l'ex compagno socialista Benito Mussolini (il quale lo sfidò anche a duello, mai avvenuto per complicazioni "procedurali") ed il movimento fascista. Ma era una lotta estremamente difficile, sia per il progressivo sfaldamento della Sinistra (decisiva la scissione comunista nel Congresso di Livorno del gennaio 1921), sia per l'esplosione di un nazionalismo esasperato che si nutriva del mito della "vittoria mutilata". Dopo l'avvento di Mussolini al potere (ottobre 1922), Salvemini, che da alcuni anni insegnava all'Università di Firenze, continuò ad opporsi al fascismo trionfante. Nel 1923 tenne a Londra una serie di conferenze sulla politica estera italiana, suscitando le ire del Governo e soprattutto dei fascisti fiorentini. I muri di Firenze furono tappezzati di manifesti recanti un eloquente messaggio: "La scimmia di Molfetta non rientrerà in Italia". Invece Salvemini non soltanto ritornò in patria, ma riprese le sue lezioni all'Università, incurante delle minacce degli studenti fascisti. Negli anni successivi la sua opposizione al regime mussoliniano diventò sempre più dura. Dopo l'assassinio del deputato Giacomo Matteotti (giugno 1924), aderì al P.S.U., il gruppo politico del leader assassinato, ed organizzò una manifestazione di protesta. Animò il periodico clandestino "Non mollare", fondato con Carlo Rosselli ed Ernesto Rossi, per tener vivi gli ideali della libertà e della democrazia; si adoperò per mantenere una fitta rete di contatti fra gli intellettuali antifascisti in tutta Italia. Mentre gran parte del mondo accademico italiano s'inchinò al regime (nel marzo del 1925 venne pubblicato quel singolare documento intitolato "Manifesto degli intellettuali fascisti"), Salvemini venne arrestato ed imprigionato. Poco dopo fu scarcerato, ma la situazione rimase drammatica. Conscio del grave pericolo che incombeva non solo sulla sua persona, ma anche su coloro che lo sostenevano, scelse la via dell'esilio e passò clandestinamente la frontiera italo-francese. Fu la grande svolta della sua vita. Mussolini nutriva una sorta di sacro timore nei confronti degli intellettuali e fece di tutto per smorzarne lo spirito d'indipendenza. Il Ministro della Pubblica Istruzione Fedele propose un compromesso che gli avrebbe consentito di mantenere la cattedra universitaria. Ma Salvemini rifiutò quella comoda opportunità. Inviò una lettera al Rettore dell'Università di Firenze, in cui spiegò la decisione di dimettersi, essendo venute a mancare le condizioni per un insegnamento veramente libero. A Londra, a Parigi e negli Stati Uniti continuò la sua battaglia politicoculturale contro il fascismo. Scrisse articoli e tenne conferenze per spiegare al mondo libero la reale natura del regime fascista. A Parigi fu tra i fondatori della "Concentrazione antifascista" e del movimento "Giustizia e Libertà". Attraverso queste organizzazioni, i fuoriusciti italiani aiutavano gli antifascisti rimasti in patria, diffondendo la stampa clan destina in Italia e mantenendo viva la tradizione della libertà. Tutti gli storici hanno riconosciuto l'importanza di questa prima "Resistenza", vera spina nel fianco del regime fascista, nella preparazione del risveglio civile del popolo italiano culminato nella guerra di liberazione. Nel 1934 avvenne un fatto estremamente significativo, che sancì l'autorità culturale acquisita da Gaetano Salvemini nell'America di Roosevelt: ottenne la cattedra di Storia della Civiltà Italiana, creata appositamente per lui, all'Università di Harvard. Ciò non gli impedì di continuare ad occuparsi della situazione italiana, ed in particolare della perniciosa alleanza tra lo stato fascista e il Vaticano. Rimase negli USA per più di vent'anni, avendo modo di apprezzare i positivi riflessi sul piano educativo e scientifico della tradizione democratica americana. Nel 1949 il Parlamento della Repubblica Italiana, grazie alla tenace battaglia di amici quali Piero Calamandrei ed Ernesto Rossi, restituì a Salvemini la cattedra all'Università di Firenze. L'ormai settantaseienne professore di Storia tornò definitivamente in Italia e riprese le sue lezioni nella città che lo aveva visto studente. Fu una grande vittoria morale. Gaetano Salvemini trascorse l'ultimo periodo della sua vita a Capo di Sorrento. Non smise mai di denunciare gli antichi mali italiani: le inefficienze, gli scandali, le tremende lungaggini di una giustizia che, per quanto democratica e repubblicana, continuava a favorire i potenti. Lamentò il fallimento della scuola pubblica, dominata dal nozionismo ed incapace di formare delle vere coscienze critiche. Quanto attuali appaiono, ancora oggi, queste amare constatazioni. Morì alle 11,30 del 6 settembre 1957. Aveva precisato più volte di aver sempre cercato di vivere secondo il precetto «Fa' quello che devi avvenga quello che può».

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