Biografia Alois Prinz |
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Alois Prinz non è un giornalista italiano. Probabilmente, dopo aver scritto questo libro, non ha passato il resto dei suoi giorni a spiegare ai colleghi della carta stampata che non era suo intento celebrare una “terrorista”, ma solo capire. Altrettanto probabilmente Alois Prinz non ha dovuto giustificarsi davanti ai parenti delle vittime delle Rote Armee Fraktion. O forse sì, non lo sappiamo. Quello che sappiamo per certo è che, se avesse scelto di raccontare in questi termini una delle tante biografie dei nostri anni di piombo, avrebbe dovuto fare i conti con gli insulti, le aggressioni verbali, i processi che il sistema mediatico nazionale mette in campo ogniqualvolta qualcuno cerca di capire quegli anni e le ragioni delle scelte che alcuni fecero e altri no.
Per sua fortuna, Alois Prinz è un giornalista tedesco e probabilmente ha una formazione culturale lontana anni luce da quella di certe pur autorevoli firme del nostro giornalismo. Cosa che gli consente di accostarsi ai fatti della storia recente del suo paese senza trincerarsi dietro i paraocchi dei giudizi di merito, e con buone dosi di sensibilità e rispetto. Anche verso chi ha perso e ha pagato. Così facendo, Alois Prinz ci racconta la storia di Ulrike Meinhof e quel che ne viene fuori è una biografia intensa, a tratti commovente, sincera e rispettosa.
Biografia che stupisce prima di tutto se ne analizziamo le date: Ulrike Meinhof nasce nel 1934. Quando il 2 giugno 1967, durante una manifestazione di protesta degli studenti tedeschi contro la visita a Berlino dello scià di Persia Pahalawi e della moglie Farah Diba, la polizia uccide lo studente Benno Ohnesborg, Ulrike ha 33 anni, è madre di due gemelle e editorialista della rivista konkret. È una giornalista affermata e popolare, quasi un’icona dell’establishment di sinistra amburghese. Proviene da una formazione cattolica, nella quale ha rivestito un ruolo fondamentale la mamma adottiva, Renate Riemeck, che si prende cura della piccola Ulrike a partire dalla morte della mamma naturale, Ingeborg Meinhof, avvenuta nel 1949. Il papà, Werner Meinhof, era morto nove anni prima.
Alla vigilia del 1968, che in Germania scocca prima che nel resto d’Europa, Ulrike è una donna matura, affermata, e nel suo curriculum politico non ci sono collettivi di estrema sinistra, università occupate, radicalismo semi-clandestino. C’è invece una vita all’insegna dello studio, della ricerca storica, fino a l’approdo al giornalismo d’inchiesta. C’è, questa sì, una costante, progressiva insofferenza verso la “falsa armonia” imposta dal suo paese e dalla classe politica che lo governa; verso quell’accelerazione poliziesca, militarista, aggressiva che la Repubblica Federale Tedesca sembra imprimere al suo presente. E poco cambia se a reggere il timone del governo c’è la cdu di Adenauer e Strauss, o la spd di Willy Brandt. C’è, sempre più soffocante, paralizzante, la consapevolezza del proprio ruolo mistificatorio: lei, la giornalista più radicale della sinistra intellettuale del paese, eppure così organica a quel mondo che disprezza e combatte.
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