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Recensione Orhan Pamuk

Orhan Pamuk

Il museo dell'innocenza

Orhan Pamuk Il museo dell'innocenza
Orhan Pamuk Il museo dell'innocenza

Una dolce ossessione sulle rive del Bosforo


(Orhan Pamuk, Il museo dell’innocenza, Einaudi, Torino, 2009)


 


 


di Federico M. Giuliani


 


 


 


Se un solo sostantivo dovesse essere reperito per definire il tratto dominante (il “continuo”, in termini musicali) di questo romanzo del Nobel 2006 per la letteratura - lo scrittore turco Orhan Pamuk -, a nostro sommesso avviso esso non potrebbe essere altro da una parola, la quale sintetizza come nessun’altra la coazione a ripetere, la mente e il corpo he sempre sullo stesso punto tornano senza generare noia né patimento: si tratta del sostantivo con cui Luchino Visconti intitolò, nell’ormai lontano 1943, il suo primo film: cioè a dire Ossessione (essendo a sua volta tale esordio viscontiano - come noto - liberamente tratto dal racconto di James M. Cain, The postman always rings twice, cui tennero dietro negli Stati Uniti, tra il ‘46 e l’81, altre due versioni cinematografiche, fra le quali assai popolare rimane oggi la più recente, con protagonisti Jack Nicholson e la Lange).


 


Pur evitando ogni anticipazione o digressione sul binomio “amore e morte”, che lega reciprocamente, nella pellicola viscontiana, i personaggi di Giovanna e Gino, va subito precisato che, in ogni ossessione propriamente intesa, è insito un componente di piacere, quand’anche chi è coartato si avvede di un tale reiterato condizionamento e, sul piano della ragione, almeno apparentemente vorrebbe porvi fine. Lo sanno bene psichiatri e psicoanalisti: se, infatti, da una parte nel disturbo ossessivo (reiterazione mentale) e compulsivo (reiterazione fisica) sono sussunte varie condotte sensibili al trattamento con farmaci serotoninergici (i quali agiscono sui neuroni cerebrali aventi la serotonina quale mediatore chimico in disfunzione), dall’altra parte, guardandosi in psicoanalisi all’origine “dinamica” di questi comportamenti sul piano del principio del piacere, si perviene alla tesi di meccanismi equilibratori di difesa legati al permanere eccessivo di una ritenzione nel rapporto con l’esterno (regressione alla sessualità anale, ecc.).


 


Non è un caso che, nel romanzo in parola - tutto incentrato nella nativa Instambul fra la metà degli anni Settanta del ventesimo secolo e oggi -, la ricerca di uno stesso amore insiste, fino all’inverosimile, sul narratore Kemal verso la giovane e sensuale Fuesun, alla ricerca straziante del ritorno al possesso di un corpo e di un’anima – quelli di lei, appunto -, che egli perde rapidamente per il motivo che segue: divenuto il di lei amante mentre è fidanzato con un’altra ragazza di nome Sibel, sebbene gli incontri erotici con Fuesun - in una sorta di vuota dependance di proprietà della madre di Kemal - abbiano assunto i tratti di un craving (tutti i giorni, nello stesso appartamento, alla stessa ora), Kemal si lascia scivolare verso il matrimonio con Sibel senza l’energia per mandarlo all’aria: la forza, cioè, per confessare coram populo il proprio love affair con Fuesun.


 


Dietro a una tale condotta del rampollo d’industria, vi è anzitutto la pigrizia esistenziale di natura amletica in un giovane colto e ricco, privo di obblighi lavorativi: una questione d’inazione preferita all’energia “interventista”, sulla scorta del concetto filosofico-aristrocatico secondo cui è di per sé inane, sempre e comunque, qualsivoglia intervento siccome tale (c.d. oblomovismo).


 


Ma le pulsioni sottese alla predetta condotta sono anche altre: in un’atmosfera - icasticamente descritta – dell’antica Bisanzio nient’affatto integrata con l’Ovest (meno che meno con gli Stati Uniti), pesa una differenza sociale quale quella esistente tra il “capitalista” Kemal e la commessa Fuesun; così come pesa il fatto che, a differenza di Sibel la quale segue la moralità dominante in Turchia negli anni Settanta/Ottanta in tema di sesso, Fuesun è più anticonformista e disinibita, tanto da concedersi tutta e subito a Kemal, in uno dei loro primi incontri.


 


Più volte l’Autore, in una con la madre di Kemal, ci ricorda la diceria diffusa in quella Istanbul d’antan, secondo cui le donne, se si davano all’amplesso prima del matrimonio, diventavano come ferrivecchi e finivano coll’andare alla deriva, poiché i maschi, dopo averne tratto godimento, andavano dicendolo in giro e (in più) non le sposavano, facendo sì che la voce della non-più-illibatezza delle loro “vittime” circolasse in città - con il che le malcapitate finivano in una risacca sociale senza più rimedio, quasi degradando a prostitute di pubblico dominio, accettate ormai solo da sparuti reietti.


 


Ecco allora che, in quest’angolo, l’essere attratto elettricamente dagli accoppiamenti con Fuesun, o il trescare con lei, e lo sposare nondimeno Sibel senza nulla dire a nessuno, per Kemal costituisce - fra l’altro - l’esito di una chiara (auto-)imposizione: una regula juris esterna che s’impone a una pulsione “naturale “ interna.


 


Qui sta l’acuirsi del <<doc>> – come si dice in gergo ippocratico – di Kemal: il suo “disturbo ossessivo-compulsivo” della personalità: avendogli famiglia e società imposto (seppure tacitamente) di mettere nell’angolo Fuesun – e illudendosi egli di relegare costei nel ruolo di amante anche dopo le nozze con Sibel -, Kemal si ammala, o si aggrava che dir si voglia: in altre parole, la sua psiche (oltremodo) s’incrina; anche perché, viceversa, l’esegesi del quadro narrativo di questo romanzo finirebbe per declassare a feuilleton quello che appare invece un lavoro geniale, pubblicato per la prima volta in Turchia nel 2008 (dunque già dopo il conseguimento del Nobel da parte dell’Autore).


 


Kemal esita sulla soglia della scelta, tentando di non scegliere, così nella vita nel mileu familiare/mondano/sociale: il suo conato è quello di perseverare ad libitum nel non sapere che cosa fare, di sé, quanto alla propria vita sessuale e sentimentale.


 


Così egli prova a postergare la decisione: s’illude che ciò sia possibile e che le cose possano, in qualche modo, slittare in avanti rimanendo come prima, con la sola – invero lieve – variante, per cui la donna tradita non sarebbe più “fidanzata” bensì “moglie”, e restando tutti gli altri – moglie appunto, e famigliari e amici – all’oscuro di quelle congiunzioni carnali (tra Kemal e Fuesun) fini a se stesse, a quegli incontri che si esauriscono in un appartamento:  il che, per certi versi, rammenta L’ultimo tango di Bertolucci ovvero Il danno di Josephine Hart/Malle (piuttosto che il Marquez de L’amore ai tempi del colera).


 


Gli è che però – insegna per primo Kierkegaard - chi non sceglie è poi scelto; e Pamuk risulta essere davvero magistrale nel vergare le pagine in cui si consuma, per il protagonista, la veridicità di un tale assunto esistenzialista.


 


Prima ancora del matrimonio di Kemal con Sibel, alla loro festa di fidanzamento ufficiale - celebrata all’hotel Hilton di Instambul – è invitata anche Fuesun, in quanto lontana parente della madre di Kemal. E, sebbene Sibel non si avveda della tresca già in atto alle sue spalle (anche perché ella non ha ancora “consumato” il suo stare con Kemal) - e mentre gli invitati fissano estasiati la flessuosa Fuesun mentre fa un giro di ballo con il promesso sposo - il lettore già ode, come in sottofondo, il sibilo sinistro - il clangore animale - del possibile inizio di una tragedia. Tale dramma incombente altro non può essere se non – essenzialmente - l’esito di un assurdo tentativo del protagonista di lasciare che gli eventi scelgano in luogo suo.


 


Sì che quando, dopo la festa, Kemal torna alla solita dependance, all’ora di rito, per il solito incontro erotico con la solita Fuesun, questa non compare; e lo stesso accade il giorno dopo e il giorno dopo ancora, e così avanti nel tempo.


 


Inutile dire che Kemal, recatosi nella boutique dove lavorava Fuesun, più non la trova, mentre la titolare dell’esercizio commerciale gli ribadisce di non avere più idea di dove ella abiti adesso: di dove sia finita dopo il repentino abbandono dell’impiego di commessa. Fusuen, insomma, dopo la festa di fidanzamento del suo amante Kemal, è evaporata in un nascondimento totale.


 


Ogni ricerca in città, ogni richiesta d’informazioni, è cosa vana: Instambul si chiude a riccio su questa improvvisa sparizione di Fuesun coi suoi genitori, mentre Kemal continua il suo percorso con Sibel fino a quando, essendo la di lui mente, e per conseguenza il di lui corpo, semplicemente incartapecoriti dalla crescente ossessione per la ragazza introvabile, la coppia rimasta – quella, cioè, di Kemal con Sibel - muore come assiderata in riva al torrido Bosforo: si accartoccia, cioè, su se stessa, come la pelle conciata di un orso bianco, colpito alla testa dal cacciatore artico della disgrazia.


 


Solo adesso Kemal confessa a Sibel la passata tresca, allorché ella, da fidanzata ufficiale, ora lo vuole “dentro di sé”, e allorquando egli però versa, per settimane o mesi, verso di lei in uno stato di totale impotentia coeundi: ciò inchioda il giovane non soltanto a dire a Sibel della infatuazione erotica per Fuesun, ma anche, nel contempo, a guardare intontito quella frana la quale, sopra di sé, sta rovinandondogli addosso - dopo averla egli stesso innescata con il folle conato di postergare l’estasi dell’eros a piacimento, eludendo il dovere di mettere ordine al proprio piacere.


 


Siamo all’incipit di una rovina, cagionata da un crescente disturbo della personalità del giovane uomo: egli continua a cercare Fuesun, e ritorna, e rammenta, e si consuma, e riprova; poi, stordito da questo continuo vagare con il corpo e il cervello, quando finalmente uno spiraglio si dischiude e la può reincontrare, egli è condannato – da se stesso più che dalle circostanze sopravvenute - a mettere in piedi una nuova reiterazione di strazio silente: una nuova coazione a ripetere, la quale può soddisfare soltanto un sistema nervoso già roso fino alle fondamenta come quello di Kemal, poiché in radice, oramai, in lui s’è consumato anche il più lontano desiderio di congiunzione corporea quale che sia; e più di ogni altra pare consunta, adesso, ogni possibile pulsione verso il congiungimento proprio con Fuesun – sebbene permanga a oltranza, nella coazione a ripetere, la voglia inesplicabile di vederla tutti i giorni a casa dei genitori di lei, con i quali ella vive.


 


 


Pamuk, a questo punto, ha già condotto - con mano capace - il lettore negli anfratti di un inferno di vita lineare quant’altre mai, eppure velenosamente intrisa d’ombre lunghe di pene, di gesti insensati, rifatti ogni giorno e ogni sera nella nuova casa di Fuesun, tutta diversa dalla dependance degli incontri postprandiali.


 


Siamo, come si accennava poc’anzi, al più algido dei contrappassi: ai pomeriggi di sesso acuto tiene ora dietro un asessuato regno di condanna kafkiana dove - come talvolta accade anche nelle pagine dello scrittore praghese (esse pure estranee a ogni pathos di eros) - dal patimento estremo e dall’assurdo dominanti stilla, non si sa come e nemmeno perché, una goccia di esiziale e istantaneo - onanistico e a pena colato - piacere di uomo disfatto.


 


Siamo alla surrogazione delle pulsioni, alla sublimazione già fatta follia, alla condanna a ex-sistere, cioè a uscire da sé stessi mentre si pro-segue: e ciò accade proprio perché ci si è macchiati del crimine di desiderare quella che, per il Sartre de L’essere e il nulla, dicesi <>: il conato cioè, kemaliano, di conseguire una pietrificata immobilizzazione di un sé rappresentato e compiaciuto, quale il ristare nel vento e/o stagliarsi immobili nel tempo. Ciò è contro natura, in senso umanistico-esistenziale; e pertanto non può conseguirne altro se non la punizione che pesa (quod factum infectum). Peraltro, la malafede di Kemal ha in sé una seria aggravante: quella per cui il suo “delitto” è marchiato dall’odore di sesso (“di sperma”, direbbe Moravia): quella copula, appunto, che si voleva cristallizzare nella reiterata – postprandiale - quotidianità della penetrazione, chiusi nella vuota dependance di proprietà della madre del rampollo.


 


E allora il contrappasso è che, alla ripetizione di orgasmi nelle calure dei pomeriggi – euforie urlate nella stanza che dà sul cortile, dove bimbi giocano a pallone nell’afa orientale -, tiene dietro la sanzione affliggente di una compulsione a riti quasi bestiali - di bastonate da soma - del fare e rifare talune cose prive in sé di ogni piacevolezza, lontane dalla libido di una distanza che nemmeno il peggiore dittatore sarebbe capace di concepire, per Kemal, quale sua pena non corporale, né apparentemente limitativa della libertà personale.


 


E’ come se si fosse al cospetto delle pasoliniane Centoventi giornate, con la differenza che le sanzioni martoriali, inferte dai vecchi sodomiti repubblichini ai giovani popolani sequestrati, sono, per Kemal, come derubricate di ogni fisicità corporea. Quella stessa “corporeità”, insomma, che nei drammi dostoevskiani è di solito al centro degli accadimenti, nelle pagine di Pamuk (sul supplizio di Kemal) è come se fosse, di forza e del tutto, risucchiata come succede all’aria sotto l’effetto del vuoto spinto: la tortura, figurativamente sodomita, si fa tutta e solo un fatto cerebrale.


 


Per conseguenza, di questa stessa condanna non fisica lo stesso Kemal, più che soffrire o piangere e straziarsi, gode: è un divertissement che surroga e sublima, sinistramente, il piacere del sesso, con un tratto perfidamente corrosivo che però il diretto interessato non coglie affatto. E’ una tortura dell’anelata goccia sulle labbra, che continua per Kemal dal 1975 al 1984 (!): nove anni di coazione a ripetere ossessivo-compulsiva, in surrogato al piacere più autentico dei corpi.


 


Lungo la strada, che Kemal percorre nella sua algida tortura - tutta fatta di nervi -, vi è un po’ di chincaglieria: tanta oggettistica-feticcio e i colori e l’aria immobile o agitata sullo stretto bizantino; i tramonti sul Bosforo e la scarsa attitudine al lavoro; gli spostamenti del giovane, sempre uguali, in Istambul, e la famiglia dello stesso che tace e in parte poi muore; i genitori di Fuesun che guardano la televisione/cucinano, ripetendo a Kemal cose prive di pathos; Fuesun che vuole fare l’attrice cinematografica, ond’è che Kemal investe tempo e soldi, come produttore, per accontentare lei e suo marito aspirante regista.


 


Sì, perché fra le altre cose, come in ogni esiziale sanzione che si rispetti, la decennale pena di Kemal si consuma nella persistenza di un sopravvenuto matrimonio di Fuesun con un altro giovanotto, un po’ scimunito e povero in canna – e con questi due sposi che vivono coi di lei genitori.


 


E allora (figuratamene) gira, con la sua zigrinatura sulla lunga lama, impietoso il coltello nella piaga del desiderio dell’io narrante, facendone schizzare – immaginari - fiotti di sangue e di voluttà istericamente psichedelica: ciò fino all’esaurimento di Kemal; fino all’esautoramento esanime di un morto che cammina: un automa che parla a vanvera come un disco scassato, sebbene in sé compiaciuto come fantoccio imbecille.


 


Poi di nuovo - dopo interminabili anni sempre uguali a se stessi, nel loro essere un nulla - quasi d’improvviso si squarcia lo sfondo di scena: c’è un cambio di luce, un colpo teatrale: Kemal può ancora, nella stanza di un motel di provincia, penetrare Fuesun, che si è ormai separata dal marito raté. E così - incredibile a dirsi dopo un decennio di stordimento totale senza fisicità di sorta - egli riesce, da questa intrapresa erotica, a trarre piacere autentico.


 


Il lettore trasecola, avendo alle spalle centinaia di pagine di condanna figuratamente onanistica del protagonista; e sospira. Ma subito entra, il lettore medesimo, in uno stato di ansia: dapprima quasi non avvedendosi di ciò che accade dinnanzi ai suoi occhi, e dipoi focalizzando i narrati eventi – cioè comprendendo che il torchio della reiterazione sublimata di Kemal si è sì arrestato, e di nuovo  a prescindere dall’istante dell’acme. Il lettore comincia a sapere che cosa è, nei dettagli, il <>.


 


A nulla rileva il trascorrere di un altro decennio se non finanche della vita intera, in confronto al romanzo che in essa s’identifica: in confronto al ricordarsi di un certo passato. Sono, queste cose, l’unico scampo per il protagonista, già morto seppure rimasto in vita: strumenti di soccorso per respirare ancora.


 


Un’altra – e nuova – ossessione, di oggetti e di gesti, si espande: sono plurimi viaggi nel mondo, autofinanziati da Kemal perché il denaro – come al solito – non gli fa difetto: Sono miriadi di rimembranze rubate le quali, in ogni anfratto di museo lontano, scattano da cosette rievocanti Sibel.  Come alla fiera di una Stary Arbat divenuta “mondo”, vengono in evidenza i frantumi di un microcosmo ritrovato: ciò scaturisce in qualsivoglia angolo geografico raggiunto dallo stesso Kemal, scandagliato pour cause alla ricerca impazzita - per l’ennesima volta - di tutto ciò che rammenta Fuesun e i miliardi di attimi con lei trascorsi a far nulla.


 


Così si consuma ancora, quasi non bastasse, il protagonista – e con lui il lettore –, su questo bric-à-brac di Cukurcuma, in via Kasatura, non lontano dal liceo di Galatasaray e dall’ospedale tedesco, sulla sponda europea dell’antica Bisanzio: ivi ha sede il Museo; ivi brucia un feticismo senza pace: il sogno realizzato del piacere impossibile, destinato a reiterarsi senza una fine che non sia la fine. Non vi è più nemmeno l’ombra degli orgasmi trascorsi, poiché oramai su tutto regna, sola, la morte: questa nei vecchi oggetti, accatastati dentro alla galleria/pinacoteca (monumento elevato al rammemorare), pare specchiarsi, ghignando sorda e sordida.


 


 


In una tale opera snervante e protesa (più di un lustro è occorso all’Autore per realizzarla), la scrittura di Pamuk si compenetra – ben al di là di un vago autobiografismo – nella vera vita, se è vero come vero che lo scrittore ha davvero creato, sul Bosforo, un intrigante quanto improbabile museo di anticaglie turche: lui, che nel 2005 fu incriminato per avere criticato la strage dei Curdi; lui, che fu poi assolto nel 2006 (pochi mesi prima del Nobel), perché il fatto più non costituiva reato a seguito della entrata in vigore, in Turchia, di nuove norme penali più favorevoli, finalizzate all’auspicato ingresso nell’Unione Europea.


 


Si dice, altresì, che il romanzo in rassegna appare riconducibile alla dicotomia valoriale tra l'occidente da un lato e l’islam dall’altro. Dietro – e dentro - una tale scissione, si agita, sempre a detta dei critici, un timbro più essenziale, interiorizzato e psicologico, di Pamuk: quella sospensione irresoluta che residua sovente al fondo dei suoi racconti; quasi che  l’ordito delle trame sia da questo Autore, anche dopo il patire, lasciato da solo a morire divelto, nel disfacimento ustionato. In ciò Istanbul, contemporanea e ottomana al contempo, non si limiterebbe – ancora per i commentatori - a fare da sfondo delle vicende umane e dei decorsi psicologici, ma assurgerebbe essa stessa a personaggio sui generis: un organismo semivivo, dotato di una propria natura e fattura, meritevoli di essere descritte.


 


Ma, nonostante quest’ultimo aspetto sia in qualche modo storico-oggettivo, il romanzo resta – a parere di chi scrive - un’epopea della perdita di lucidità da parte di un uomo, pure nell’apparente (para-)normalità delle sue condotte.


 


Il museo dell’innocenza, cioè, sembra ammonirci con quel che segue: quando, nella esistenza, ci accade che qualche cosa – una certa cosa, che non si sa bene ex ante quale sarà – ci passa accanto e noi non interveniamo, ne possono scaturire conseguenze che ci stravolgono per sempre e senza scampo, trascinandoci in un vortice di squartamento interiore senza più fondo: alle volte, in altre parole, basta un nulla - un soffiare implume da noi male recepito - e l’anticamera di una vita diversa, tutta sovvertita, è già imboccata - con la porta d’ingresso che subito si serra alle nostre spalle.


 


 Con le sue quattrocento pagine d’inno a un disturbo della personalità poetizzato, Il museo dell’innocenza ci conduce a taluni possibili estremi, che ci è dato di sperimentare semplicemente vivendo: la ridda dei piccoli fatti scanditi, tra di loro assai poco variati, con poche persone: fatti consumati nel raggio di scarsi chilometri, in una ristrettezza fisica la quale, a sua volta, richiama l’arroccamento mentale del protagonista, mentre questi si perde in un gorgo infinito che è un niente: mentre passano gli anni e un decennio e migliaia di giorni, come se nulla fosse. Ecco gli estremi poc’anzi evocati: ciò che è Tutto in senso soggettivo è Niente di oggettivo e di effettuale; la vita stessa è un’alba e un occaso al contempo: orgasmo e impotenza, virilità e deliquio, godimento spontaneo e gusto intriso di mero narcisismo.


 


Né, d’altronde, può sfuggire, giusto a proposito della malattia ossessivo-compulsiva da noi divisata in Kemal, che questa investe e corrode, nello specifico, un giovane ricco al quale tutto è permesso, tra cui il non fare pressoché nulla di lavorativo. A ben vedere Kemal “può permettersi il lusso” di stare male, cosicché la sua giornata può essere contorta nel (dis)piacere della onanistica reiterazione fine a se stessa: una dolce ossessione per cui, partendo per la tangente e vivendo una vita non-vita, egli si abbandona alla sublimazione alienata.


 


Kemal si può permettere tutto ciò perché, qualunque cosa gli accada - in qualsivoglia direzione egli voglia canalizzare l’esplosione delle proprie tensioni implose -, il possesso del capitale di famiglia, anche in sua assenza gestito prima dal padre e poi dal fratello, gli garantisce un “sovrappiù” che a molti altri, tra cui Fuesun e suo marito, non è per nulla concesso nei fatti.


 


Questo tratto realistico e crudele al contempo, nel romanzo in rassegna non mi pare – nondimeno - che assurga a protesta sociale, piuttosto consentendo all’Autore di portare la malattia del protagonista alle situazioni-limite più corrosive, ai confini più lontani dove il tempo stesso si sfalda, e il diario clinico diventa una regola anziché un episodio di climax.


 


 


Genio incontrovertibile di questi anni, intriso di rara sottigliezza, l’artista turco (oggi vicino alla sessantina) attinge, come si diceva, all’autore de Il castello, là dove disegna un asettico clima (medio-orientale eppure) polare di luoghi non-luoghi, siccome tali privati d’ogni possibile senso, al più con la sola pena (auto-)irrogata per la colpa di essere nati e del volere provare piacere in un modo o nell’altro, qualunque sia il modo, a prescindere dalla fonte e dell’appagamento.


 


Ancora attinge, l’ottimo Pamuk, a quel senso del tempo proustiano che su di sé torna, in una corrosione interiore che è, sadianamente, percossa o lesione e un godere di esse in endiadi.


 


E pur tuttavia, nell’apprendere la lezione dei due maestri novecenteschi (Franz e Marcel, appunto), il Nostro non si scompone e non cade mai in citazioni, ma piuttosto personalizza la storia e fa proprio il racconto, portando la mania – in guisa direi post-moderna – ancor di più allo spasimo: spremendo all’imo il senso della condanna; contraendo i ritmi di essa e, del pari, infittendo la periodica ricorrenza dell’estasi correlata al sordo reiterarsi della sanzione.


 


Così è un ricordare, quello del nostro Autore, che si fissa/si cristallizza su di una sola persona – Fuesun – per l’ntero racconto, sui momenti con lei trascorsi o “dentro” di lei goduti: frammenti preziosi sol che si pensi che, soltanto a essi, è consacrata l’intera vita di un uomo dai trent’anni al capolinea poi atteso.


 


Si possono, in tale guisa, trovare addentellati anche tra la scrittura di Pamuk e le parole/le immagini di altri autori, quali il Thomas Mann del Faustus o il Visconti del re bavarese folle e pederasta: con un punto di contatto, in ciò, rappresentato dall’eros kai thanatos classicheggiante, ripresi a suo tempo dal decadentismo (v. D’Annunzio p.e. nel Trionfo della morte) e poi non disdegnati, quale binomio clou, nemmeno dal neorealismo (v. Pavese nelle poesie del disamore, oppure Ossessione ancora di Luchino: opera, quest’ultima, non a caso citata sopra all’inizio).


 


Il fatto poi che, nel Museo, del quadrilatero “sesso e ossessione e soldi e morte”, all’imprenditore Kemal tocchino in sorte soltanto i primi tre; il fatto, cioè, che a chi ha il danaro, per il reato di malafede e di ossession, competa sì una condanna a vita e però non quella “capitale” (aggettivo) – quest’ultima residuando proprio per chi, di “capitale” nell’altra accezione (sostantivo), non ne ha: tutto ciò costituisce un dato il quale, se freddamente osservato, può accostare questo Pamuk anche al Pasolini de La ricotta piuttosto che al Moravia de La romana, al Fellini de Le notti di Cabiria  piuttosto che al Grido di Antonioni, o alla Prima notte di quiete di Zurlini.


 


Né, sull’autonomia creativa di Pamuk, possono darsi dei ragionevoli dubbi, avendo egli disegnato questo Museo – lungo una sorta di terzo fil rouge dell’ordito – anche come romanzo-saggio: si veda, in tal senso, il preciso titolo posto all’inizio di ogni paragrafo, che in qualche modo riecheggia il capolavoro di Musil.


 


Ecco che allora, da questo Museo contemporaneo - da questa lente o cristallo di raffinata fattura, o musica barocca la quale, come dolce ossessione, par di udire lontano coi suoi contrappunti e le fughe mentre si è curvi sul tomo -, il lettore fuoriesce un po’ stordito ma piacevolmente illanguidito: teso e nel contempo (più) forte: più consapevole dei suoi propri anfratti (i più foschi e piacenti), dei lacerti - di sé - più remoti e voluttuari e nascosti.


 


 

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