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Biografia Goffredo Parise
Goffredo Parise
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Goffredo Parise è nato a Vicenza l'8 dicembre del 1929 da Ida Wanda Bertoli e da padre sconosciuto (un medico veneto, che abbandonò la giovane donna in stato interessante).
La vita di una ragazza madre, allora, in una Vicenza ancora contadina e bigotta, non era certo facile e Goffredo trascorre un'infanzia difficile, fra l'altro con quella menzogna che fu necessario inventare dicendogli che il padre era morto, tenendolo sempre isolato, superprotetto, insomma chiuso sempre in casa.
"Eravamo io, mia, madre, i nonni". "Il nonno aveva una piccola fabbrica di biciclette, ma fallì l'anno in cui sono nato. Ma era dolce, buono e abile; io la notte mi sognavo certi giocattoli, e lui di giorno me li costruiva". In "E tu chi eri?" di Dacia Maraini, Bompiani, lo scrittore raccontò "Io stavo sempre al davanzale a guardare gli altri ragazzi che giocavano per strada. A me non era permesso andare a giocare con loro".

Nel 1937 morto il nonno (Goffredo ha 8 anni) la madre sposò il giornalista Osvaldo Parise (direttore del Giornale di Vicenza), che sei anni più tardi diede a Goffredo il proprio cognome "...era un uomo di poche parole, portava scarpe lucenti, ma alla sera dopo cena mi raccontava i romanzi di Salgari; all'ora stabilita io fremevo; poi lui cominciava: Le tigri di Mompracem, il Corsaro Nero...ecc. ecc.". Così si irrobustì molto l'affetto fra padre adottivo e figlio.
Un affetto che diventò ancora più profondo, poi anche di orgoglio quando a 25 anni vide il figlio che occupava una pagina intera sul Corriere del 15 gennaio del 1955. Dicono che rimase incollato per alcune ore sulla firma del figlio.

Alle elementari, che frequenta a Vicenza, nelle scuole Leone XIII, in una nota sul Corriere, Goffredo scrisse in seguito: "Asino, Sempre stato asino e sempre promosso per il rotto della cuffia". E la madre in una intervista di Carlo Pilloli su Gente. "Era un disastro. All'esame di quinta elementare il maestro mi mandò a chiamare: ma come posso ammetterlo all'esame, se non è capace di scrivere nemmeno una riga? No, non lo avrei mai immaginato scrittore".
Parise, procede, va avanti, medie, poi liceo, ma c'è la guerra, e lui poco più che quindicenne, partecipa alla Resistenza collaborando con il Partito d'Azione.
Sotto l'occupazione tedesca e con i bombardamenti che a Vicenza furono terribili, come distruzioni e come numero di vittime -e inutili strategicamente- l'adolescente che non è capace di scrivere nemmeno una riga, compone una canzone che gli procurò guai per la sua ironia. Diceva: "No, non le bombardate per carità - non le profanate le nostre città. - Le case, le cose, le chiese - le nonne, le spose, le rose - i vasi di Cellini - polenta e uccellini".

Dopoguerra, anni di liceo, Parise ha la passione per la pittura "L'avevo ereditata da chissà quale nonno" dirà in seguito "la mia era una pittura lirico-narrativa, alla Chagall, ma vicentina. Poi un giorno andai a Venezia, alla Biennale e vidi i veri quadri di Chagall, e capii subito che era meglio lasciar perdere con i pennelli". Iniziò allora a scrivere qualche racconto, e fra questi Una piccola famiglia, o secondo altre versioni, I movimenti remoti. Andato perduto. Una storia allucinante, kafkiana. Parlava di un uomo chiuso nella tomba che sentiva evaporare la coscienza assieme al disfacimento del corpo.

Sempre bocciato al Liceo, riuscì in un anno a prendersi la maturità. Si iscrisse poi all'Università di Padova, frequentando i corsi di filosofia, di medicina e di matematica, senza prendere nessuna laurea.

Nel 1950, 21 enne fa il suo esordio letterario. Qui lasciamo parlare Neri Pozza, l'editore vicentino che sul Giornale di Vicenza del 1° settembre 1986 così ricordava: "un pomeriggio venne da me e tolse di tasca un foglio spiegazzato: era l'attacco del suo primo libro, Il ragazzo morto e le comete, e credo fosse sicuro di aver afferrato il filo che lo avrebbe portato a scrivere il libro. Diceva di non sapere come avrebbe svolto la sua storia, però sapeva che esisteva il teatro di gesta, bastava che i suoi personaggi deformi e scalcagnati cominciassero a muoversi e le sue ragazze a parlare. Se ne andò qualche settimana a Venezia a vivere in una stanza-granaio. Cinque mesi dopo, aveva finito di scrivere il libro. Venne a trovarmi e volle che lo leggessimo insieme; restò due giornate disteso nel letto vicino al mio, nella mia camera, a leggere e a spiegare. Dopo di che consegnai il libro al tipografo. Il lettore d'oggi deve cercare di figurarsi quel che successe a Vicenza, quando il libro andò in vetrina e cominciò a correre fra le mani del pubblico. Non ci fu un lettore, al di sopra della giovinezza, che dicesse una parola di consenso. Parise era, per i suoi venticinque lettori, "matto da legare". Di fatto, il libro non ebbe premi e, nemmeno recensioni che lo incoraggiassero. Ma Parise andava per la sua strada. Gli premevano le idee, le fantasie".
La recensione venne con il suo secondo romanzo, La grande vacanza, che Neri Pozza, pubblicò nel 1953; ed era nientemeno che di Eugenio Montale che sul Corriere del 14 novembre si disse "affascinato dall'abilità di Parise e dal suo calarsi nell'infanzia senza modi nostalgici e crepuscolari". Nel 1968 venne anche la recensione -sempre sul Corriere- di Carlo Bo, che definì La grande vacanza "un libro di autentica poesia".

Nel frattempo era andato a Milano, nel '52, a lavorare alla Garzanti ma nello stesso tempo teneva contatti con Longanesi progettando di dare a lui il suo terzo romanzo. Suo padre giornalista e direttore di un quotidiano, aveva tentato di inserirlo presso qualche suo collega, presso l'Alto Adige di Bolzano, e dopo, al collega Galata che dirigeva L'Arena a Verona. O per il carattere di Galata (aveva il vezzo di scrivere qualsiasi cosa in stampatello), o per il temperamento di Parise, i rapporti tra i due non erano idilliaci, anzi furono burrascosi. A Parise non piaceva fare il "galoppino" nei piccoli processi in pretura, al pronto soccorso, alle cerimonie inaugurali, ecc. Se ne andò piuttosto bruscamente, "perche?" - gli chiese il Galata - "perchè non posso lavorare in un giornale il cui direttore non ha una grafia propria e mette anche la firma in stampatello". Questa versione è quella che accreditava agli amici, e Giulio Nascimbene la riporta in un articolo, in Dieci anni e un secolo, supplemento del Corriere del 29-10-86.

Uscito dall' Arena, Parise insofferente alla routine, partì nel '52 per quella Milano che aveva ancora le macerie per le vie, e, come lui stesso raccontava, "con una valigetta di cartone legata con uno spago e con i soldi in tasca datigli dal padre per comprarsi un impermeabile".
Abbiamo letto sopra cosa era già avvenuto nel 1953 con il suo secondo romanzo. Nel '54 era arrivata un po' di fama. Ma già pensava ad altro, l'idea e la fantasia premeva. Iniziò prima a parlarne a Longanesi, poi da lui sollecitato stese il manoscritto de "Il Prete bello"; quando poi lo consegnò, Longanesi lo lesse ma glielo restituì, dicendo che era "stufo di sentir parlare di preti e di nonni proletari", insomma che il suo libro "puzzava di comunismo".


Parise si rivolse a Garzanti, che fu di altro avviso, intuì il capolavoro, lo pubblicò, fu un grande successo.
Nel '65 contava già dieci edizioni italiane, tredici traduzioni all'estero presso i più importanti editori del mondo. Ma i patetici e sfrenati ragazzi Sergio e Cena, creature di carne e ossa più che di carta e inchiostro, continuano a divertire e a commuovere lettori di ogni opinione, al di sopra delle polemiche e degli apprezzamenti moralistici. Un microcosmo di provincia denso, acceso di fermenti umani, un testo audace che s'impone per la sua appassionata sincerità. « Una vena di angosciosa poesia, un dono verbale agile e impetuoso, » scrisse Emilio Cecchi sul « Corriere della Sera ». « Un romanzo che conta nella letteratura d'oggi, » scrisse Guido Piovene sulla « Stampa »

Ma Vicenza (bigotta, strana città ibernata, implacabilmente descritta proprio in questo libro) quando uscì nessuno lo aveva letto, nessuno ne sapeva niente, ma nelle librerie come arrivavano le copie in poche ore erano esaurite, di nascosto, incartate in un giornale, pacchetti anonimi, ritirati furtivamente dietro il bancone.
Nessuno lo aveva letto, ma tutti ne parlavano, sottovoce, e tutti a dire "che vergogna!", "che scandalo!!".

"Era il 1955. A 25 anni per Parise, il Prete bello, fu la sua laurea di narratore di successo, che gli aprì le porte del giornalismo, compiendo un altro tentativo di inserirsi a Il Giorno. Altro impatto faticoso, che bloccava nei piccoli spazi, la sanguigna vena letteraria del poeta.
Poi la storia cambia. Il 15 gennaio, entra nel portone di via Solferino. Il debutto sul Corriere d'Informazione. A fine settimana su questo foglio del pomeriggio, vi era una pagina con il "Racconto del Sabato", vi pubblicavano Palazzeschi, Buzzati, Soldati, Pratolini, Campanile, Flaiano. E ogni tanto un nome nuovo. Afeltra il "patron" chiamò anche Parise, che scrisse il suo "racconto" intitolato "Vuoi far del cinema?". Una pagina intera, sette colonne, con il titolo corpo 48.


Afeltra ricorda: "Goffredo era emozionato, ma mi chiese di fare dell'altro", "ma cosa?", " vorrei provare del giornalismo dal vivo".
"Proviamo; magari Parigi -gli dissi- parlo con l'amministrazione per le spese", "Perchè, potrebbero fare obbiezioni? Mi proponga un forfait, tutto compreso e lasci stare l'amministrazione".
Aveva fretta. Gli proposi 40 mila lire ad articolo, tutto compreso. Due giorni dopo era a Parigi a iniziare i suoi reportage. Mi scrisse "Le prime impressioni possono essere misere, perfino penose, eppure sono tutte affascinanti. Stiamo dunque a vedere...". Il primo articolo cominciava così: "Sono un provinciale, non ho mai viaggiato ed ora eccomi a Parigi...". Il "Provinciale speciale" del Corriere andò avanti per 14 articoli.


Poi venne il resto, con il Corrierone, con il Vietnam (sulle linee di fuoco ("partimmo in centouno, tornammo in trentasei vivi"), il Biafra ("Un viaggio nell'orrore") il Cile, Cuba, l'Albania, la Siberia, la Mongolia, la Cina ("Cara Cina"), il Giappone, il Lahos, la Cambogia. Tutto il mondo dove c'erano i "vulcani degli umanoidi" in eruzione.

Per trent'anni collaboratore e inviato speciale del Corriere della Sera. Diventa uno di quelli che il fedele lettore prima di leggere il titolo, legge prima la firma, e va sul sicuro.
Collaboratore normale? Ma nemmeno per sogno. Parise, parte, va, sta via mesi, e in via Solferino attendono invano, e spesso non arriva nulla, o arriva in ritardo quando certi traumatici eventi non occupano già più le prime pagine. Accadrà con i vari direttori, Missiroli, Russo, Spadolini, Ottone...Di Bella, Cavallari, Ostellino.

Motivo? Ecco cosa scrisse a Barbiellini, dal tragico Cile dopo la morte a settembre di Allende e l'avvento del regime di Pinochet, un Paese dove Parise ha viaggiato per tremila chilometri in lungo e in largo, ma a fine ottobre non ha ancora inviato nulla: "Ti prego di scusarmi con Ottone per il ritardo. Il Cile non è più cronaca, azione, ma storia, riflessione. Richiede una visione parzialmente distaccata, come ho tentato di fare qui". E poi parlando dell'articolo che inviava ("Nel grande silenzio del Cile" pubblicato il 1° nov. '73 - Ndr) "...vedrai che il distacco necessario appare; sia perchè è passato qualche tempo, sia perchè in queste cose ho purtroppo bisogno di tempo....Non so cosa fare di più; per me nulla è "routine" e tutto deve avere un "frisson" interiore".

Il "frisson", è il brivido, l'emozione artistica, quello stato d'animo che si chiama anche ispirazione; motivo ricorrente in altri episodi dei suoi grandi reportage. Anche quando interruppe il Sillabario alla lettera S, spiegò: "Alla lettera S la poesia mi ha abbandonato, La poesia va e viene, vive e muore quando vuole lei: non bada ai nostri programmi. Come l'amore, come la vita".

Già, come la vita! Per Parise iniziano le malattie, soffre di un'arteriopatia diffusa, quattro by-pass ortocoronarici, poi sei anni di dialisi, che affronta con grande forza, "Le malattie vanno maltrattate". Lui sempre cosciente delle proprie infermità, ma che con grande coraggio riesce "a fingere di non essere un malato grave".
Fino all'ultimo minuto, delle ore 9 di mattina del 31 agosto 1986, su un letto dell'ospedale di Ca' Foncello a Treviso. Non riusciva più a respirare né a muoversi, gli infermieri cercarono di cambiar posizione al malato, Goffredo li fermò, dicendo "Non ne vale la pena"; furono le sue ultime parole poi spirò.

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